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giovedì 24 gennaio 2013

26/1: L'Anarchismo: un'idea viva nella storia di Roma

 
L'ANARCHISMO: UN'IDEA VIVA NELLA STORIA DI ROMA
ne discutiamo sabato 26 gennaio 2013 h. 16:00 allo Spazio Anarchico "29 Luglio"
v. Rocco da Cesinale, 18 (Metro Garbatella)
con
Pasquale Grella, Roberto Carocci, Valerio Gentili
organizza: Circolo "Carlo Cafiero" Fai-Roma

giovedì 20 dicembre 2012

Tecnologia DIY e rivoluzione (Le unglie della talpa)

Gli smanettoni del fai-da-te informatico lo sapevano da un pezzo: con un barattolo di latta, qualche filo elettrico, un manico di scopa, un minimo di ferramenta e un vecchio telefonino, meglio se di quelli con l'antenna esterna, si può potenziare enormemente la propria rete senza fili o realizzarne una privata con amici che abitano a chilometri di distanza. Tempo minimo, materiale a costo zero, divertimento garantito, efficacia enorme.
I ficcanaso del Dipartimento Americano per la Sicurezza Interna sono sicuri che smanettoni egiziani hanno realizzato artigianali ponti radio con semplici attrezzature fai-da-te di questo genere. In fondo non ci vuole nulla a moltiplicare per dieci la portata di un telefonino e agganciarsi alla rete cellulare di un altro paese, se nel proprio qualcuno stacca la spina alle comunicazioni. È comunque certo che in piazza Tahrir dei giovani abbiano installato una o più reti wireless con computer portatili usando poi le antenne direzionali taroccate per una rete più vasta.

Qualcuno potrebbe obbiettare agli spioni: non fate i furbi, la rete l'avete installata voi per attizzare le vostre maledette rivoluzioni colorate. Figuriamoci. Certamente gli smanettoni egiziani (e libici, e siriani, e sauditi, e coreani, e cinesi, e perché no, americani) giocavano con questi aggeggi molto prima che gli spioni si svegliassero con parabole, satelliti e tecnologie da fantascienza. Nelle ambasciate e negli uffici che contano non si erano accorti che un terremoto stava arrivando. Forse neanche gli smanettoni se lo aspettavano, ma sicuramente il terremoto si aspettava gli smanettoni. E li ha trovati già pronti.

L'antenna direzionale, oltre a potenziare la trasmissione, invia i dati in uno stretto fascio di onde, cosa che la rende quasi invulnerabile alle intercettazioni. Due parabole di cartone e stagnola ben allineate possono dar luogo a una rete wi-fi con operatori a 100 km di distanza a una velocità ragionevole anche per i video. E comunque non sarebbe il solo modo per aggirare il blocco antirivolta delle comunicazioni. Effettivamente in Egitto sono stati utilizzati ponti radio amatoriali in modulazione di frequenza (ham-radio). Il mezzo è tradizionale per la parte radio, che è analogica, ma un modem trasforma il segnale, per cui è possibile inviare e ricevere file digitali. In questo caso il segnale è facilmente intercettabile, ma l'esiguità delle attrezzature permette una mobilità totale che impedisce l'individuazione dell'operatore. Sicuramente si è fatto ricorso anche ai telefoni satellitari, che sono costosi, ma fanno parte di sistemi che un governo non può bloccare su due piedi.

Andate su Internet e digitate sul motore di ricerca qualche parola chiave del tipo: "antenna direzionale fai-da-te". Da un link all'altro navigherete in un mondo di bricoleurs dell'etere e delle reti, connesso a quello degli hackers, dei semplici cacciatori di sensazioni e di coloro che hanno seri problemi di comunicazione. Poniamo che una parte sia composta da spioni e fomentatori di rivoluzioni colorate che lavorano per Santa Democrazia. E allora? I media hanno riportato il caso di un forno a microonde taroccato per modulare la frequenza e trasmettere dati ad alta velocità. La cosa sembra plausibile. L'innocente elettrodomestico è figlio del radar, un apparecchio inventato durante la guerra per la guerra. Il suo nuovo utilizzo ci fa venire in mente Engels e la dialettica del cannone e della corazza: non c'è mai fine alla rincorsa interattiva fra i mezzi offensivi e quelli difensivi
 
da "n+1", n. 29, aprile 2011.

sabato 17 novembre 2012

M Rossi, Livorno Ribelle e sovversiva

Marco ROSSI
LIVORNO RIBELLE E SOVVERSIVA
Arditi del popolo contro il fascismo 1921-1922

prefazione di G. Sacchetti

L’esperienza degli Arditi del popolo rientra pienamente tra le “anomalie” storiche e politiche del secolo scorso, tanto che per lungo tempo è stata oggetto di rimozione, da destra come da sinistra, nelle ricostruzioni degli eventi successivi alla Prima guerra mondiale.
A Livorno, l’arditismo popolare si ricollegò a quella tensione rivoluzionaria che aveva attraversato la composita collettività labronica durante le insorgenze risorgimentali e i conflitti sociali del Biennio rosso.
Fu così che – tra l’estate del 1921 e quella del ’22 – il sovversivismo dei quartieri proletari si oppose, con ogni mezzo necessario, allo squadrismo fascista. Questa fu a tutti gli effetti la prima strenua resistenza, anche se poi la memoria ufficiale ha preferito commemorare quella partigiana nella rituale festa nazionale del Venticinque aprile, evitando di ricordare come quella guerra civile era iniziata e cancellando anche coloro che praticarono l’antifascismo prima che la violenza reazionaria diventasse regime.
Indice
Guerra civile, prefazione di G. Sacchetti
Introduzione all’anomalia
Portofranco della rivolta
Gli Arditi del popolo
La breve estate dell’arditismo
Anarchici e arditi
La caduta di Livorno
Appendici
Livorno in sciopero per la libertà di Malatesta
Sedi politiche, sindacali e ritrovi pubblici
Elenco degli Arditi del popolo livornesi
Abbreviazioni
Indice dei nomi

sabato 6 ottobre 2012

Gli Arditi del Popolo

Gli Arditi del Popolo, la prima organizzazione antifascista (1921-22)
a cura di Eros Francescangeli

Benché l'antifascismo – inteso sia come teorizzazione politica che come risposta militare - nasca quasi contemporaneamente alla comparsa dello squadrismo, le prime forme di resistenza al fascismo sono sicuramente meno note di quelle legate alle esperienze della guerra civile spagnola e della Resistenza. Nel secondo dopoguerra, l'antifascismo sconfitto degli Arditi del popolo è stato relegato ai margini della storiografia, benché dietro esso vi fossero sia - come notò Guido Quazza - "tutta una storia", sia le stesse ragioni fondanti della Resistenza. Tra le ragioni di questa parziale rimozione, vi possono essere quella delle origini e della natura della prima associazione antifascista (permeata da miti arditistico-dannunziani, successivamente fatti propri dal fascismo, e, al contempo, attestata su posizioni genericamente rivoluzionarie) e quella della difficile autocritica degli attori di allora (dalle istituzioni alle forze politiche e sociali) le quali non compresero appieno la portata del fenomeno fascista e che, tranne qualche eccezione, ostacolarono la diffusione dell'antifascismo del 1921-22. Un antifascismo forse (e comunque solo per taluni aspetti) distante, per contenuti e forme, da quello istituzionalizzatosi nell'Italia repubblicana; ma pur sempre un antifascismo nel quale l'esperienza resistenziale e il movimento democratico sorto da essa trovano la loro origine.

Nascita del movimento

Nati a Roma gli ultimi giorni di giugno del 1921 da una scissione dell'Associazione nazionale arditi d'Italia, per iniziativa dell'anarchico Argo Secondari (ex tenente dei reparti d'assalto nella prima guerra mondiale), gli Arditi del popolo si propongono di opporsi manu militari alla violenza delle squadre fasciste. Estenuate da mesi di spedizioni punitive, le masse popolari colpite dallo squadrismo accolgono la loro nascita con entusiasmo. Stanche dei crimini fascisti, esse vedono concretizzarsi nella nuova organizzazione quella volontà di riscossa che trae origine - soprattutto negli strati meno politicizzati della classe lavoratrice - dal puro e semplice istinto di sopravvivenza. La comparsa degli Arditi del popolo rappresenta indubbiamente, per il proletariato italiano, il fatto eclatante dell’estate1921. Sia costituendosi ex novo che appoggiandosi alle sezioni della Lega proletaria (l'associazione reducistica legata al PSI e al PCd'I) o a formazioni paramilitari preesistenti (quali gli Arditi rossi di Trieste o i Figli di nessuno di Genova e Vercelli), nascono in tutta Italia sezioni di Arditi del popolo, pronte a fronteggiare militarmente lo squadrismo fascista. Il nuovo governo, presieduto da Ivanoe Bonomi, guarda al fenomeno arditopopolare con estrema preoccupazione, poiché la comparsa delle formazioni armate antifasciste rischia di affossare l’ipotesi della realizzazione di un trattato di tregua tra socialisti e fascisti (quello che sarà, nemmeno un mese dopo, il "Patto di pacificazione") fortemente desiderato dal presidente del Consiglio.

Il 6 luglio 1921, presso l'Orto botanico di Roma, ha luogo un'importante manifestazione antifascista alla quale prendono parte migliaia di lavoratori e la cui eco arriva fino a Mosca: la "Pravda" del 10 luglio ne fa infatti un dettagliato resoconto e lo stesso Lenin, favorevolmente colpito dall'iniziativa e in polemica con la direzione bordighiana del PCd'I, non ha dubbi a indicarla come esempio da seguire. Dopo questo imponente raduno, la struttura paramilitare antifascista diviene, nel volgere di pochi giorni, un'organizzazione diffusa capillarmente. Le linee di espansione dell'associazione seguono, principalmente, le direttrici che dalla capitale conducono a Genova (Civitavecchia, Tarquinia, Orbetello, Piombino, Livorno, Pisa, Sarzana, La Spezia) e ad Ancona (Monterotondo, Orte, Terni, Spoleto, Foligno, Gualdo Tadino, Iesi). Ma anche in molti altri centri al di fuori di queste due vie di comunicazione gli arditi del popolo riescono a costituirsi in gruppi numericamente consistenti. Rilevanti sono, a riguardo, quelli del Pavese, di Parma, Piacenza, Brescia, Bergamo, Vercelli, Torino, Firenze, Catania e Taranto. Ma anche in alcuni centri minori gli arditi del popolo riescono ad organizzarsi efficacemente.

I numeri dell'organizzazione

Prendendo in considerazione le sole sezioni la cui esistenza è certa, l’organizzazione antifascista risulta strutturata, nell’estate del 1921, in almeno 144 sezioni che raggruppano quasi 20 mila aderenti. Le 12 sezioni laziali (con più di 3.300 associati) primeggiano con quelle della Toscana (18, con oltre 3.000 iscritti). In Umbria gli arditi del popolo sono quasi 2.000, suddivisi in 16 sezioni. Nelle Marche sono quasi un migliaio, in 12 strutture organizzate. In Italia settentrionale, la diffusione del movimento è significativa in Lombardia (17 sezioni che inquadrano più di 2.100 Arditi del popolo), nelle Tre Venezie (15 nuclei per circa 2.200 militanti) e, in misura minore, in Emilia Romagna (18 sezioni e 1.400 associati), Liguria (4 battaglioni e circa 1.100 Arditi del popolo) e Piemonte (8 e circa 1.300). Nel Meridione le sezioni sono 7 sia in Sicilia che in Campania, 6 in Puglia, 2 in Sardegna e solo una in Abruzzo e in Calabria, mentre gli iscritti sono circa 600 in Sicilia, poco più di 500 in Campania e nelle Puglie, quasi 200 in Abruzzo e poco meno in Calabria, 150 in Sardegna.

La struttura militare

Sotto il profilo tecnico-militare, gli Arditi del popolo sono una struttura militare agile, capace di convergere in poco tempo dove si presuma possa avvenire una spedizione punitiva dei fascisti. L'organizzazione antifascista cerca inoltre di esercitare il controllo del territorio attraverso marce per le strade cittadine oppure, alla stregua di una vera e propria milizia di quartiere, pattugliando il territorio e identificando gli elementi filofascisti. Non deve meravigliare dunque che la struttura organizzativa dell’arditismo popolare privilegi l’aspetto militare su quello politico. Gli Arditi del popolo sono strutturati in battaglioni, a loro volta suddivisi in compagnie (altrimenti dette centurie) e in squadre. Ogni squadra è composta da dieci elementi più il caposquadra; ogni compagnia è costituita da quattro squadre più il comandante di compagnia; il battaglione, infine, risulta composto da tre compagnie più il comandante di battaglione. Dunque, 136 uomini coadiuvati da un plotone autonomo di sicurezza di altri 10 elementi. Ogni battaglione ha al suo interno delle squadre di ciclisti per mantenere i collegamenti tra i vari battaglioni (rionali nelle grandi città). I ciclisti assicurano inoltre i collegamenti tra il comando generale, i battaglioni e altri soggetti (sedi operaie, ferrovieri, tranvieri, operai d’arsenali, "ufficio stampa e giornale della sera"). L’addestramento degli inquadrati avviene mediante apposite esercitazioni, le quali, comunque, molte volte si risolvono in esercizi formali.

Dal punto di vista organizzativo, la struttura del movimento ardito-popolare non è accentrata in modo eccessivo. Ai vari Direttorii dei Comitati regionali (varati solo sulla carta al primo congresso dell’associazione) vengono lasciati ampi margini di autonomia. Nella pratica, ogni sezione dell’associazione decide autonomamente il da farsi e il proprio stile di lavoro. Stile che – ovviamente – muta a seconda della corrente politica dominante nella determinata realtà. Proprio perché l’organizzazione si dichiara estranea a qualsiasi raggruppamento politico, l’inquadramento nelle centurie non avviene, di norma, sulla base dell’appartenenza ad una determinata organizzazione del movimento operaio. Accade però che in alcune realtà (come ad esempio Livorno) gli Arditi del popolo si dividano in compagnie sulla base dell’appartenenza politica.

I simboli dell'arditismo

Al pari della struttura tecnico-militare, anche i simboli della prima organizzazione antifascista derivavano dall’arditismo di guerra: un teschio cinto da una corona d’alloro e con un pugnale tra i denti con sotto scritto – in caratteri maiuscoli – "A noi!" è il simbolo dell’associazione. Il timbro del direttorio è costituito invece dal pugnale degli arditi, circondato da un ramoscello di alloro e uno di quercia incrociati. Effigi allora in gran voga e non certo patrimonio esclusivo dei Fasci di combattimento o delle forze politiche di destra. In qualche caso, come a Civitavecchia, il gagliardetto degli Arditi del popolo (una scure che spezza il fascio littorio) esprime invece più chiaramente la ragion d’essere dell’organizzazione. Anche se non si può parlare di una vera e propria divisa, gli arditi del popolo, come del resto la quasi totalità dei giovani militanti dei partiti politici dell’epoca, ne hanno genericamente una: indossano un maglione nero, pantaloni grigio-verdi e, a volte, portano una coccarda rossa al petto. Molti Arditi del popolo infine, durante scontri e combattimenti, si proteggono il capo con gli elmetti Adrian. Gli inni dell’organizzazione ricalcano anch’essi, per musica e testi, i motivi dell’arditismo di guerra. Dell’inno "ufficiale", cantato sull’aria di quello degli arditi "Fiamme nere", è conservata copia nelle carte di polizia. "Siam del popolo - le invitte schiere/ c’hanno sul bavero le fiamme nere/ Ci muove un impeto - che è sacro e forte/ Morte alla morte - Morte al dolor", recita il ritornello; mentre l’ultima strofa dichiara programmaticamente: "Difendiamo l’operaio/ dagli oltraggi e le disfatte/ che l’Ardito, oggi, combatte/ per l’altrui felicità!" Nel settembre 1921 l’organo dell’associazione, "L’Ardito del popolo", pubblica invece un’altra versione dell’inno più esplicitamente antifascista. Sull'aria di "Giovinezza", i primi versi della canzone recitano così: "Rintuzziamo la violenza/ del fascismo mercenario./ Tutti in armi! sul calvario/ dell’umana redenzion./ Questa eterna giovinezza/ si rinnova nella fede/ per un popolo che chiede/ uguaglianza e libertà."

partecipanti

Gli organizzatori dell’associazione, a seconda della tradizione politica delle località in cui essa è presente, sono i militanti dei movimenti e dei partiti politici proletari o "sovversivi": anarchici, comunisti, socialisti massimalisti (in particolare terzinternazionalisti), repubblicani, ma anche sindacalisti rivoluzionari e, in alcune zone del paese, popolari. Oltre all'intenzione di opporsi alle violenze delle camicie nere con pratiche di resistenza armata, ciò che tiene unite queste differenti correnti del movimento operaio è la comune lettura del fenomeno fascista come reazione di classe. Il fattore coagulante non è dunque politico-ideologico, ma prettamente sociale. A livello sociale, il profilo prevalentemente proletario del movimento è una caratteristica evidente in tutto il territorio nazionale. I lavoratori delle Ferrovie dello Stato sono numerosissimi, molti sono gli operai in genere e i metalmeccanici in particolare, parecchi i braccianti agricoli, gli operai dei cantieri navali, i portuali e i marittimi. Vari sono pure gli operai edili, i postelegrafonici, i tranvieri e i contadini. Ma vi sono anche, in misura minore e soprattutto tra i gruppi dirigenti, impiegati, pubblicisti, studenti, artigiani e qualche libero professionista.

La breve storia degli Arditi del Popolo

Insieme alle adesioni arrivano anche i primi successi militari: le difese di Viterbo (che vide la cittadinanza stringersi attorno ai militanti antifascisti per respingere l'assalto degli squadristi perugini) e di Sarzana (nei cui scontri restarono uccisi una ventina di fascisti), organizzate dagli arditi del popolo dei due centri, disorientano e incrinano la compagine mussoliniana: le due anime del fascismo individuate da Gramsci, quella urbana - più politica e disponibile alla trattativa - e quella agraria - essenzialmente antipopolare e irriducibile a ogni compromesso - giungono a un passo dalla scissione. Ma, violentemente osteggiati dal governo Bonomi, gli Arditi del popolo non ricevono - tranne qualche eccezione - il sostegno dei gruppi dirigenti delle forze del movimento operaio e nel volgere di pochi mesi, riducono notevolmente il loro organico, sopravvivendo in condizioni di clandestinità solo in poche realtà tra le quali, Parma, Ancona, Bari, Civitavecchia e Livorno; città in cui riusciranno, con risultati differenti, a opporsi all'offensiva finale fascista nei giorni dello sciopero generale "legalitario" dell'agosto 1922. Già nell'autunno precedente, comunque, l'azione congiunta di governo e Magistratura aveva dato i suoi frutti: le sezioni dell'associazione si erano ridotte a una cinquantina e gli iscritti a poco più di seimila.

Il motivo di questa brusca battuta d'arresto non va però ricercato solamente nell'atteggiamento delle autorità. I provvedimenti bonomiani contro i corpi paramilitari (che danneggiarono le sole formazioni di difesa proletaria), le disposizioni prefettizie, gli arresti, le denunce e lo stesso atteggiamento della Magistratura (ispirato alla politica "dei due pesi e delle due misure"), non sarebbero stati possibili o comunque pienamente efficaci se le forze politiche popolari avessero sostenuto, o quantomeno non osteggiato, la prima organizzazione antifascista. Ma esse, per ragioni differenti, abbandonarono al proprio destino la neonata struttura paramilitare a tutela della classe lavoratrice.

Tolta la piccola Frazione terzinternazionalista, Il PSI, il principale partito proletario, oltre a fare propria la formula della resistenza passiva, si illuse di poter siglare un accordo di pace duraturo con il movimento mussoliniano (il cosiddetto "patto di pacificazione"), e con la quinta clausola di questo patto scellerato, dichiarava, non senza una dose di calcolato opportunismo, la propria estraneietà all'organizzazione e all'opera degli Arditi del popolo.

Colto alla sprovvista dalla loro comparsa, ma propenso ad opporre forza alla forza, il Partito comunista decide di non appoggiare gli Arditi del popolo poiché - a detta del Comitato esecutivo - costituitisi su un obiettivo parziale e per giunta arretrato (la difesa proletaria) e, dunque, insufficientemente rivoluzionari. La difesa proletaria doveva realizzarsi esclusivamente all'interno di strutture controllate direttamente dal partito, e gli Arditi del popolo - definiti infondatamente "avventurieri" e "nittiani" - dovevano considerarsi alla stregua di potenziali avversari. Ma moltissimi comunisti (tra cui anche qualche dirigente e, all'inizio, lo stesso Gramsci) non accettarono simili disposizioni e restarono all'interno degli Arditi del popolo o proseguirono nell'azione di collaborazione e/o appoggio. Solo dopo ulteriori interventi da parte del "Centro" (accompagati da vere e proprie minacce di gravi provvedimenti disciplinari) la maggior parte delle strutture del PCd'I si adegua alla linea ufficiale e va ad allargare le fila delle Squadre comuniste d'azione. Questa scelta politica viene criticata duramente dall'Internazionale comunista che, a partire dall'ottobre del '21, avvierà un serrato dibattito con i dirigenti del PCd'I, stigmatizzandoli per il loro settarismo.

Con l'eccezione del Lazio, del Veneto e della Federazione giovanile, per quanto riguarda i repubblicani, e del Parmense e di Bari, per sindacalisti rivoluzionari e legionari fiumani, le forze politiche della "sinistra interventista" si orientano quasi subito anch'esse verso soluzioni di autodifesa che escludono la confluenza o la collaborazione con gli Arditi del popolo. Anche queste formazioni preferiscono organizzare l'autodifesa a livello partitico, teorizzando, nella maggioranza dei casi, la perfetta equidistanza tra "antinazionali" (anarchici, socialisti e comunisti) e "reazionari" (fascisti, nazionalisti e liberal-conservatori).

L’unica componente proletaria che sostiene apertamente l’arditismo popolare è quella libertaria. Un'area composita e numericamente consistente al cui interno vi sono anime tra loro assai diverse. In ogni caso, sia l’Unione sindacale italiana che l’Unione anarchica italiana sono, per tutto il biennio 1921-22, sostanzialmente favorevoli alla struttura paramilitare di autodifesa popolare. Dopo l'allineamento di Gramsci e de "L'Ordine nuovo" alle direttive del partito, il quotidiano anarchico "Umanità Nova" rimane infatti l’unica voce proletaria a perorare la causa degli Arditi del popolo.

venerdì 28 settembre 2012

M. Rossi, Arditi, non gendarmi!

Marco ROSSI
ARDITI, NON GENDARMI!
Dalle trincee alle barricate: arditismo di guerra e arditi del popolo (1917-1922)

Prefazione di Eros Francescangeli

Gli Arditi del popolo, prima espressione dell’antifascismo in armi, si opposero con ogni mezzo agli squadristi di Mussolini alla vigilia della sua salita al potere, nella guerra civile seguita alla Prima guerra mondiale. Anche se per breve tempo, la loro azione fu al centro delle cronache dell’epoca e tutti gli schieramenti politici dovettero misurarvisi. Ciò nonostante, è stata oggetto di una lunga rimozione: il fatto che ex-combattenti, veterani dei reparti d’assalto, non solo si fossero sottratti alla strumentalizzazione mussoliniana, ma vi si fossero opposti anche con le armi contendendo al fascismo l’eredità “spirituale” dell’arditismo, ha rappresentato un precedente scomodo, difficile da interpretare. Ancora oggi la storiografia stenta a distinguere i ruoli giocati rispettivamente da arditi, futuristi, legionari fiumani e sindacalisti rivoluzionari in una situazione instabile e contraddittoria quale fu quella del Primo dopoguerra. La nuova edizione rivista e ampliata di Arditi, non gendarmi! ripercorre le tracce che dal fango delle trincee, passando attraverso le piazze di Fiume, portarono alle barricate dell’autodifesa proletaria contro l’aggressione fascista.

Indice
- Il petardo dell’adunata, di Eros Francescangeli
- Premessa, a posteriori
- I futuristi della guerra
- Delitto e castigo
- Nelle trincee della guerra sociale
- Arditi e fascisti
- Fiume ardita d’Italia
- Le Bal des Ardents
- Il fiumanesimo
- Figli di nessuno e Ardite rosse
- Argo Secondari
- Sangue del nostro sangue
- Dal nulla sorgemmo
- Difesa proletaria
- L’insegnamento di Parma
- Rosso contro tricolore
- Guerra sia...
- Epilogo
- Appendice
- Indice dei nomi

G. Bosio, I conti con i fatti

Gianni Bosio
I CONTI CON I FATTI
Saggi su Cafiero, Musini e l'occupazione delle fabbriche
 
La classe operaia opera, costruisce, si organizza, pensa e si esprime in maniera propria...
Gianni Bosio ha dedicato particolare attenzione al periodo 1870-1921, durante il quale il movimento operaio fu relativamente spontaneo, dimostrando una creatività organizzativa non più raggiunta in seguito. L’attenzione su quel periodo ha oggi – nel momento cioè di una crisi irreversibile delle tradi-zionali organizzazioni operaie – forse più che ieri, implicazioni storiografiche e conseguenze politiche di grande rilievo.
La geniale figura dell’organizzatore di cultura, ha fatto un po’ dimenticare l’originalissimo e innovativo apporto del Bosio storico. Queste sue ricerche su Carlo Cafiero, Luigi Musini e sull’occupazione delle fabbriche, ieri pietre miliari nella non facile ricostruzione della storia del movimento operaio italiano, mantengono oggi tutto il loro interesse e la loro freschezza, riproponendo interrogativi politici tutt’altro che esauriti.
GIANNI BOSIO (Acquanegra sul Chiese, 1923 – Mantova, 1971) è stato uno dei più importanti storici del movimento operaio. Fondatore nel 1949 della rivista Movimento operaio, nel 1953 delle Edizioni Avanti!, nel 1965 dell’Istituto Ernesto de Martino, è stato anche il più ragguardevole rappresentante della prima generazione di storici oralisti. Curatore degli Scritti italiani di Marx ed Engels (Edizioni Avanti!, 1955), è autore tra l’altro de Il trattore ad Acquanegra (De Donato, 1981) e degli scritti contenuti ne L’intellettuale rovesciato (seconda edizione accresciuta, Istituto de Martino /Jaca Book, 1998).
CESARE BERMANI (Novara, 1937 - ), dell’Istituto de Martino, curatore di più volumi di scritti di Gianni Bosio, è stato tra i primi a utilizzare criticamente le fonti orali ai fini della comprensione di passato e presente. È autore, tra l’altro, di Pagine di guerriglia (4 vol., 1971-1999, Istituto Storico della Resistenza di Borgosesia) e di Introduzione alla Soria orale (2 vol., 1999-2001, Roma, Odradek edizioni.
 
 
ODRADEK.IT

giovedì 20 settembre 2012

Amilcare Cipriani, l'internazionalista baricadero (1844-1918)

Amilcare Cipriani nacque ad Anzio, il 18 ottobre 1844, ma la sua famiglia si trasferì a Rimini quando aveva appena quindici giorni. Trascorse l'infanzia in una scuola gestita da religiosi, che disprezzavano il temperamento ribelle del ragazzo. Scappò di casa per arruolarsi nell'esercito Piemontese, era il 1859, e lui non era ancora quindicenne quando combatté nella battaglia di S. Martino. Fu tra i Mille accanto di Garibaldi nel famoso 1860. Di nuovo al suo fianco fu anche durante la disastrosa impresa in Aspromonte. Raggiunse la Grecia (qui Cipriani costituì il " Club Democratico" e con Emanouil Dadaoglou, nel 1862, organizzò un gruppo violentemente ostile al Re Otto di Grecia) e poi l'Egitto da ricercato; nel 1866 il "disertore" tornò a combattere tra le file di Garibaldi. Nel 1867, dopo il rientro ad Alessandria d'Egitto, in una rissa uccise un italiano e accoltellò due guardie egiziane. A Londra, dove si rifugiò, conobbe Giuseppe Mazzini e fece parte della I Internazionale; successivamente si trasferì in Francia, dove combatté con Garibaldi contro i Prussiani. Cipriani partecipò alla difesa della Comune di Parigi (1871), a causa della quale fu condannato a morte, pena poi convertita all’esilio in Nuova Caledonia (come Louise Michel). Fu graziato dopo otto anni, nel 1880. Espulso dalla Francia, si spostò in Svizzera, dove conobbe Carlo Cafiero. Nel gennaio 1881 fu arrestato in Italia con l’accusa di "cospirazione"; nel 1882, ad Ancona, fu processato per i fatti egiziani e condannato a vent'anni di lavori forzati da scontare a Portolongone. La sua fama rimase immutata e nel 1886, alle elezioni politiche, fu presentata la sua "candidatura di protesta" nei collegi di Ravenna e Forlì, dove risultò eletto con un plebiscito. Nel 1888, grazie anche alle pressioni popolari, il nuovo processo sui fatti egiziani lo assolse da ogni accusa. Tornò nuovamente a Parigi dove fondò l'"Unione dei popoli latini", si avvicinò alle posizioni socialiste rivoluzionarie e anarchiche, collaborando attivamente a quotidiani e periodici, tra cui Le Plébéien (Il Plebeo). Durante il congresso di Zurigo della II Internazionale, Cipriani si dimise dal suo mandato per protesta contro l’esclusione degli anarchici. Nel 1891 partecipò come delegato ai lavori del Partito Socialista Rivoluzionario Anarchico e, il 1° Maggio all’insurrezione di piazza Santa Croce in Gerusalemme a Roma. Nel 1897, mente i rapporti con il nazionalista Mazzini si erano oramai completamente deteriorati, combatté in Grecia contro i Turchi, prima di essere incarcerato in Italia, con la condanna a tre anni. Dal 1911 in Italia i suoi scritti divennero illegali perché considerati sovversivi. Nel 1914, ancora una volta, fu eletto, come forma di protesta, ma non poté sedere in Parlamento per essersi rifiutato di prestare il rituale giuramento al Re. Morì a Parigi, il 2 maggio 1918.

A. V. Shubin, Nestor Machno e la rivoluzione in Ucraina


1917-1921, la storia misconosciuta di Nestor Machno e della rivoluzione libertaria in Ucraina
 
A poco meno di un secolo dagli eventi, è ora possibile ricostruire nella sua complessità la storia della Rivoluzione russa, al di là dei miti e dei racconti dei vincitori. Grazie all'apertura degli archivi segreti dell'URSS, sono infatti riemersi quei movimenti sociali che hanno segnato in maniera cruciale le vicende rivoluzionarie prima dell'avvento del regime bolscevico.

Un'attenzione particolare, anche per le dimensioni del fenomeno, è stata data all'anarchico ucraino Nestor Machno e al movimento contadino, denominato machnovscina, che tra il 1917 e il 1921 coinvolse una vasta regione dell'Ucraina. Fu proprio questa grandiosa jacquerie libertaria la vera protagonista della rivoluzione in quella parte dell'ex impero russo.

E lo fu tanto per i suoi esperimenti di autogestione e democrazia diretta, quanto per quella guerriglia partigiana che combatté vittoriosamente contro occupanti austro-tedeschi, nazionalisti ucraini, revanscisti zaristi. E contro l'Armata Rossa, che dopo un'alleanza tattica con l'esercito contadino, una volta vinta la guerra civile annientò i machnovisti bollandoli come «banditi». Oggi i documenti ci raccontano un'altra storia di quella epopea controversa e affascinante.


Il comunismo libertario verso il quale ci stavamo muovendo noi supponeva la libertà dell'individuo, l'eguaglianza, l'autodeterminazione, la libera iniziativa, la creatività e l'abbondanza per tutti.
Abbiamo avuto l'occasione di gettare le basi di una società fondata su principi anarchici, ma quelli che ci siamo trovati di fronte non ce ne hanno lasciato né il tempo né lo spazio. Loro hanno trasformato la lotta delle idee in un combattimento fra gli uomini.

Nestor Machno

La Comune di Parigi 1871.

 
Franco CONIGLIONE
PARIGI 1871. LA COMUNE LIBERTARIA
 
Gli avvenimenti di marzo portarono nelle strade di Parigi una umanità dolorante che non si era mai vista. La borghesia (secondo la testimonianza di Vilfredo Pareto) ne fu addirittura terrorizzata. Più che gli scontri veri e propri, le barricate e le distruzioni, come l’abbattimento della colonna Vendôme eretta a ricordo delle vittorie di Napoleone, fatti che interessarono solo una parte dei quartieri della città, quello che fece veramente paura fu l’autorganizzazione di una realtà sovversiva che non si immaginava potesse fare da sé. Dai luoghi più reconditi e miseri di Parigi uscirono le forze vive di quella parte della società da sempre destinata alla fame e all’ignoranza. E questa gente non andava tanto per il sottile, anche se i tentativi di frenarla partirono subito da quelle componenti – politici, letterati, avvocati – che in questi casi riescono a mettersi alla testa di ogni iniziativa per darle il “giusto” freno e indirizzarla verso quelle contrattazioni che nella logica del potere possono dare i migliori frutti. Difatti, anziché attaccare subito Versailles, utilizzando i cannoni che si trovavano a Parigi, e impiegando le forze militari che potevano avere facilmente ragione dei resti di un esercito umiliato e sconfitto, questi “capi proletari” fecero di tutto per rallentare le cose e permettere al governo provvisorio di riorganizzarsi e, con l’aiuto dei Prussiani, schiacciare la Comune.
edizioni Anarchismo, 2007, pp. 50, € 4.00

martedì 18 settembre 2012

La Comune Libertaria di Kronstadt, 1921

Kronstadt 1921-2011: Bagliori di socialismo e libertà
Il 1° marzo del 1921 a Kronstadt la rivoluzione russa riappariva in superficie, per la quarta volta in quindici anni. Non più solo contro lo zar, né contro i conciliatori, ma sempre per il socialismo e questa volta contro il potere bolscevico. Cogliere quello che accadde a Kronstadt non è possibile senza riferirsi all’esperienza concreta vissuta nella tumultuosa isola del Golfo di Finlandia. Concepita dagli zar come isola fortificata per presidiare un attacco dal mare alla capitale, essa avrebbe finito per rappresentare l’avanguardia della rivoluzione in un crescendo vorticoso.

All’appuntamento del 1905 i marinai della fortezza sono presenti, ma il loro ammutinamento nel crogiolo della prima rivoluzione russa non rappresenta ancora alcuna particolarità rispetto ad altri avvenuti in tutta la flotta, tra cui quello famosissimo dell’incrociatore Polùmkin: è pienamente inserita nella corrente rivoluzionaria con tutte le immaturità di quel primo tentativo. Ma il soffocamento della rivoluzione porta con sé a capo della guarnigione dell’isola l’ammiraglio Viren, con il compito di ripristinare l’ordine tra i marinai e gli abitanti dell’isola imponendo una disciplina severissima e odiosa. Confidando nella capacità del suo ammiraglio di “ridurre alla ragione” i più riottosi e recalcitranti, lo zar farà trasferire a Kronstadt molti soldati distintisi tra i rivoluzionari, al fine di punirli e piegarli. La mossa si sarebbe rivelata decisamente improvvida: sotto la cortina della disciplina apparente si diffondevano e confrontavano idee di cambiamento radicale, che al momento critico sarebbero germogliate nel processo rivoluzionario. Nel ‘17, infatti, quello di Kronstadt fu tra i primi soviet a costituirsi, distinguendosi da subito per le posizioni molto radicali.

In prima fila nelle drammatiche giornate di luglio, determinati contro il tentativo reazionario di Kornilov in settembre, pienamente coinvolti nella rivoluzione di Ottobre, i marinai di Kronstadt si guadagnarono così da Trotsky l’appellativo di “onore e gloria” della rivoluzione. Eppure non è lecito pensare a Kronstadt in ogni circostanza e su ogni questione come ad un fiore all’occhiello bolscevico, ché anzi vi furono ragioni di differenza e di attrito molto importanti. Nel giugno del ‘17 il soviet di Kronstadt proclama l’indipendenza della cittadella, certo segnalando così la propria diversità dall’allora ancora troppo moderato soviet di Pietrogrado, ma soprattutto riflettendo una spinta anticentralista e federativa che provocò un certo imbarazzo tra i bolscevichi della cittadella e critiche da quelli della capitale; dopo l’Ottobre a Kronstadt continua a funzionare e si rafforzò una rete di comitati di palazzo, di officina, di unità militari e navali che, intrecciandosi con il soviet, ne articolavano l’attività: dall’amministrazione delle case e delle officine, alla iniziale socializzazione dell’orticoltura isolana, aspetti che suscitarono polemiche durissime da parte della minoranze bolscevica in seno al soviet dì Kronstadt.

Il 1918 rappresenta un turning point: i bolscevichi nel volgere di tre mesi vedono la loro rappresentanza al soviet locale passare da quasi la metà a meno di un terzo, a vantaggio di altre organizzazioni rivoluzionarie (dai socialrivoluzionari di sinistra, ai socialrivoluzionari massimalisti, agli anarchici, ai menscevichi internazionalisti). Otterranno la maggioranza in seno al soviet alcuni mesi più tardi grazie alla bolscevizzazione dei soviet, in virtù della quale vengono semplicemente espulse tutte le componenti di opposizione. L’apparente ed effimera docilità di Kronstadt da allora in poi fu dovuta al contraccolpo immediato della sconfitta della democrazia sovietica, ma si combinò anche molto alla convinzione che le circostanze eccezionali della guerra civile rendessero necessario mettere da parte dissidi e polemiche per far fronte comune nella lotta alla controrivoluzione. Perciò la conclusione della guerra civile all’inizio del ‘21 fu vista da importanti settori come la fine delle misure eccezionali che il governo bolscevico aveva adottato e la possibile ripresa della democrazia sovietica, d iure et de fàcto soppressa. Nella capitale pareva sempre più insopportabile il regime dei razionamenti, dei commissari e della Ceka e nel febbraio del ‘21 si verificarono scioperi in parecchie officine .Colpiti da queste notizie i marinai di Kronstadt decidono l’invio nella capitale di una delegazione che raccolga informazioni e riferisca. La delegazione trova una città ingessata dalla ripresa del controllo da parte della Ceka, che palesemente presidia le fabbriche: gli operai restano perlopiù silenziosi e intimiditi di fronte alle domande della delegazione; solo uno denuncia la totale soppressione di libertà e il potere pervasivo dei commissari. Il rapporto della delegazione di fronte agli equipaggi riuniti della Sebastopol e della Petropavlovsk, le corazzate di stanza a Kronstadt, indignai marinai che alla fine dell’assemblea approvano con due sole astensioni la risoluzione in quindici punti che qui riproduciamo:

“Udito il rapporto dei rappresentanti dei marinai mandati a Pietrogrado dall’assemblea generale degli equipaggi per accertare la situazione, noi chiediamo:

1. che in considerazione del fatto che i Soviet attuali non esprimono la volontà degli operai e dei contadini, si tengano immediatamente nuove elezioni a voto segreto, con libertà di propaganda preliminare per tutti gli operai e i contadini;

2. libertà di parola e di stampa per gli operai e i contadini, per gli anarchici per i partiti socialisti di sinistra;

3. liberta di riunione per i sindacati e le associazioni contadine;

4. che sia convocata, non oltre il 10 marzo 1921, una conferenza apartitica di lavoratori, di soldati dell’Armata rossa e di marinai di Pietrogrado, di Kronstadt e della provincia di Pietrogrado;

5. la liberazione di tutti i prigionieri politici dei partiti socialisti e di tutti gli operai e contadini, soldati dell’Armata rossa e marinai imprigionati in relazione ai moti della classe operaia e dei contadini;

6. l’elezione di una commissione incaricata di riesaminare i casi delle persone detenute in carcere e nei campi di concentramento;

7. l’abolizione di tutti gli uffici politici, perché nessun partito deve godere di privilegi speciali nella propaganda delle sue idee e ricevere fondi dallo Stato per questo scopo; invece di questi Uffici, si devono istituire commissioni culturali-educative elette localmente e finanziate dallo Stato;

8. l’abolizione immediata di tutti i blocchi stradali;





Insorti della marina imperiale zarista, equipaggio della nave Petropavlovsk (Петропавловск), in Finlandia prima di partecipare alla rivolta di Kronstadt

9. la parificazione delle razioni di tutti i lavoratori, ad eccezione degli addetti a lavori dannosi per la salute;

10. l’abolizione dei distaccamenti comunisti di combattimento in tutte le unità militari e delle guardie comuniste in servizio nelle fabbriche e negli stabilimenti; se di questi distaccamenti e guardie ci fosse bisogno, potrebbero essere scelti dalle compagnie nelle unità militari e a discrezione degli operai nelle fabbriche e negli stabilimenti;

11. che ai contadini sia dato il diritto e la libertà di usare la terra come meglio credono e anche il diritto di avere il bestiame che sono in grado di mantenere e custodire da soli, cioè senza l’uso di manodopera salariata;

12. chiediamo che tutte le unità militari e anche i compagni kursanly (gli allievi ufficiali) approvino la nostra risoluzione;

13. chiediamo che a tutte le risoluzioni si dia ampia pubblicità sui giornali;

14. chiediamo la nomina di un ufficio itinerante di controllo;

15. chiediamo che sia consentita la libera produzione artigianale di chi lavora in proprio.

L’indomani, 1 marzo, la stessa risoluzione viene presentata discussa in un’assemblea cittadina, cui prendono parte almeno 15.000 persone. Tra queste, accolti con gli onori ufficiali, vi sono anche due inviati del partito bolscevico, i quali esprimono immediatamente la contrapposizione del partito alle richieste dei marinai, rendendo evidente che mancava qualsiasi volontà di mediazione. L’adozione a larghissima maggioranza della mozione de marinai apre la strada alla conformazione di un comitato rivoluzionario provvisorio, inizialmente di cinque componenti, poi allargata a quindici per cooptazione. La quarta rivoluzione russa era cominciata. L’indomani la cittadella è totalmente nelle mani degli insorti. Immediata, parte la campagna bolscevica per isolar Kronstadt da Pietrogrado e dal resto dell’Unione: un profluvio di menzogne si abbatte sugli insorti, mentre i loro familiari vengono arrestati e presi in ostaggio.

Disperatamente gli insorti, sulla stampa delle Izsvestija di Kronstadt e negli appelli radio, smontano le accuse di essere al servizio della controrivoluzione, rivendicano il carattere socialista delle loro rivendicazioni, spiegando che il loro programma vuole l’autentico esprimersi del potere dei soviet, nella libertà e nella difesa delle conquiste della rivoluzione. Ma non riescono ad estendere la loro rivoluzione oltre la roccaforte, impediti a portare il loro messaggio al di fuori dell’isola, a causa delle inconseguenze delle correnti rivoluzionarie, oltre che dello strettissimo filtro bolscevico. Un fatto gravido di conseguenze negative, che renderanno più semplice la repressione che i bolscevichi stavano preparando. Nel frattempo la situazione si fa di ora in ora più tesa. I bolscevichi paiono sempre più determinati a reprimere: il loro statalismo non ammette critiche, né prevede di relazionarsi a questa rivoluzione, per rintracciare in essa le energie per superarsi. Altri bolscevichi, centinaia di abitanti e marinai di Kronstadt, nelle stesse ore decidono di uscire dal partito in cui avevano creduto o vi restano schierandosi apertamente con l’insurrezione. Il tentativo di mediazione degli anarchici Emma Goldman e Berkman in queste condizioni è destinato a naufragare sul nascere. Il 7 marzo sotto il comando di Tuchaèevsky iniziano le operazioni militari contro Kronstadt.

Il X congresso bolscevico, che si riunisce in quei giorni, approverà all’unanimità l’invio di un quarto dei delegati per contribuire ad espugnare la fortezza. Ben 60.000 uomini fronteggeranno la cittadella rivoluzionaria cercando di avanzare sul ghiaccio del golfo di Finlandia, incalzati da tergo dalle mitraglie della Eeca indente a dilaniare i corpi di chi si ritirava. Con perdite gravissime e dopo dodici giorni di reiterati attacchi le truppe governative irrompevano nella cittadella, sparando casa per casa, massacrando chiunque, anche molti tra gli arresi cosi come poi sarebbe accaduto ai familiari presi in ostaggi. Il resto lo avrebbero fatto i tribunali e le sezioni della Eeca. I vincitori saranno minuziosamente attenti a cercare di disperdere la memoria; il soviet della cittadella che aveva innalzato nel proprio vessillo la consegna: “Tutto il potere a i soviet e non ai partiti” sarebbe stato sciolto, per non essere mai più ricostituito, sostituito da una troika di commissari bolscevichi.

La rivoluzione socialista si forgia

Veniva stroncato così dai bolscevichi l’ultimo tentativo della rivoluzione russa di risollevarsi e di reagire al suo riflusso. Lo statalismo rivoluzionario dei bolscevichi nella situazione di generale ripiegamento dell’ondata del 17, li aveva portati a concepire solo se e nient’altro che sé quale garanzia di una vittoria rivoluzionaria, proprio mentre non erano in grado, né volevano riconoscere la rivoluzione che riemergeva, anzi, le si contrapponevano frontalmente. Quella di Kronstadt fu peraltro una rivoluzione le cui caratteristiche vanno viste più da vicino. In essa si manifestò, infatti, una spinta evidente al socialismo, esprimentesi nella chiara carica libertaria che la contraddistinse. Qui si evince un nodo importante: la quarta rivoluzione russa nel rivendicare il ‘potere ai soviet e non ai partiti” esprime l’impossibilità di realizzare il socialismo, se le classi subalterne vengono espropriate della facoltà di autogoverno. Questo elemento molto importante non casualmente verrà ignorato da tutti i sostenitori di Lenin e Trotsky nelle decadi successive. Tuttavia la stessa concezione di autogoverno degli insorti merita alcune brevi considerazioni.

Tale era la fiducia nella insostituibilità dei soviet che i rivoluzionari di Kronstadt vedevano in essi il solo strumento possibile; tutto ciò che non fosse ritenuto sovietico doveva essere spazzato via, anche contraddicendo l’esigenza democratica e libertaria che animava la rivendicazione del soviet come forma di autogoverno: fortissima resterà la rivendicazione dello scioglimento dell’Assemblea costituente, per eseguire il quale Kronstadt aveva fornito una delegazione molto ampia e determinata. D’altra parte l’elemento dell’autogoverno, per quanto caratteristico, è insufficiente per l’edificazione di una società socialista, per il fatto che la socializzazione è l’elemento conn0tante e fondamentale al contempo della affermazione delle basi di una civiltà delle donne e degli uomini liberamente associati, ciò che per comodità chiamiamo socialismo” . Sebbene nella vita quotidiana della cittadella elementi iniziali di socializzazione fossero presenti, ad esempio nella coltivazione degli orti urbani, in quella fitta rete di comitati di caseggiato, di fabbrica e anche di unità militari, è interessante notare come i 15 punti di Kronstadt non contengano in merito alla socializzazione riferimenti di alcun tipo. Le rivendicazioni in campo sociale, paradossalmente, si fermano molto più indietro di quanto non fosse stato larvalmente praticato dai rivoluzionari isolani dal 17 in poi. Pare quasi che i protagonisti non assegnassero alcuna importanza qualificante a una parte importante di ciò che, pur contraddittoriamente, avevano iniziato a fare.

Ma il paradosso apparente trova una sua spiegazione nel fatto che se la rivoluzione di Kronstadt fu, da un lato, l’opposto di ciò che la leadership bolscevica l’accusava di essere, cioè una controrivoluzione al soldo dell’imperialismo, dall’altro, essa deve non solo la sua forza, ma anche i suoi limiti proprio al fatto di essere stata parte integrante della rivoluzione russa. La debolezza dell’idea di socialismo che emerge dalla rivoluzione di Kronstadt, per quanto ben più avanzata ed affascinante di quella sostenuta con il terrore rosso dai bolscevichi deriva, insomma, proprio dal fatto che quella rivoluzione germinava dalle tensioni positive del 17, ma ne subiva anche la debolezza socialista , o, detto in altri termini, non aveva saputo andare oltre la richiesta di autogoverno per affermare e praticare la centralità della socializzazione.

La rivoluzione di Kronstadt non fu un frutto improvvisato: il suo insorgere derivò dalla vivace presenza e anche dallo scontro di varie componenti rivoluzionarie, che vi si svilupparono a partire dal 1905. Il particolare concentrate di oppositori che si ritrovarono nell’isola grazie alla miope mossa dello zarismo, citata all’inizio, creò a Kronstadt condizioni particolari, che vanno lette per le loro implicazioni. Innanzi tutto può stupire la contraddizione tra Kronstadt e altre cittadelle militari nelle esperienze rivoluzionarie, poiché queste ultime mai sono state delle avanguardie nel processo rivoluzionario, quanto piuttosto realtà di retroguardia; in generale, come ci ricorda correttamente Rosa Luxemhurg, la disciplina militare, lungi dall’essere una scuola di preparazione alla rivoluzione , rappresenta al contrario un elemento di diseducazione. Tuttavia proprio la presenza concentrata di avanguardie rivoluzionarie nell’isola riuscì a rappresentare una controspinta formidabile alla barbarie della disciplina militare e della guerra stessa. Non deve stupire allora il senso di differenza dei marinai di Kronstadt che, già nel 17, deprecavano la maniera manesca degli operai di Vyhorg nell’affrontare le differenze di opinione.

Varie correnti avevano lavorato per lunghi anni alla preparazione della rivoluzione nella cittadella, dai bolscevichi, ai socialrivoluzionari di sinistra, agli anarchici, ai menscevichi internazionalisti, ai socialrivoluzionari massimalisti. Questi ultimi rappresentano un’anomalia, perché il loro radicamento, generalmente molto limitato, è sicuramente profondo a Kronstadt. Il loro principale esponente, Anatoly Lamanov, verrà più volte eletto delegato ai congressi panrussi dei soviet e dirigerà il giornale del soviet locale, le Jzvestija di Kronstadt, conducendo il suo raggruppamento a risultati molto importanti, arrivando nel 18 a essere la seconda organizzazione al soviet locale, appena dietro i bolscevichi. Molto del programma dei 15 punti di Kronstadt viene dalle posizioni di questo raggruppamento, mentre va ridimensionato il peso, che un luogo comune vuole attribuire all’anarchismo, sulle posizioni di Kronstadt. Infatti, se è vero che alcune rivendicazioni erano state già innalzate dagli anarchici, la Kronstadt del 21 non si batteva contro lo Stato in quanto tale, ma per uno Stato nelle mani dei lavoratori. Dei bolscevichi, poi, è bene ricordare che solo dopo la bolscevizzazione dei soviet, nel luglio 19, essi sarebbero riusciti a divenire maggioranza assoluta. In precedenza, infatti, per quanto fossero il gruppo più numeroso, in più di una circostanza vennero messi in minoranza. Battaglie durissime vennero combattute in seno al soviet proprio sugli elementi di larvale socializzazione degli immobili e dei servizi urbani, che i bolscevichi osteggiarono costantemente, o sulla denuncia da parte del soviet di Kronstadt della repressione degli anarchici attuata nell’aprile del 18 dal soviet di Mosca, per non ricordare la proclamazione della repubblica di Kronstadt nella primavera del 17.

Insomma, posizioni distinte tra correnti rivoluzionarie diverse si confrontarono e scontrarono a Kronstadt per anni, mantenendo viva la prassi della discussione aperta tra i settori più ampli della società civile che cercavano sempre spazi di libertà nonostante le chiusure bolsceviche. Il concorrere di varie correnti che discutevano, proponevano e lottavano sulle strade che la rivoluzione poteva seguire fu un elemento preparatorio decisivo per la quarta rivoluzione.


Kronstadt insegna
Interrogarsi sul lascito di Kronstadt è molto importante per chi vuole mantenere viva e rafforzare la prospettiva del socialismo come primo passo per l’autoemancipazione. Non casualmente i vecchi marxisti rivoluzionari, e segnatamente i trotskisti nella crisi che li attanaglia, continuano a non voler imparare dagli eventi di quel drammatico 1921. Viceversa il nuovo marxismo rivoluzionario continua a cercare di estrarre lezioni vive dalle rivoluzioni, sia per la positiva sia per la negativa. In effetti, grazie in primo luogo al contributo di Dario Renzi, la posizione del nuovo marxismo rivoluzionario su Kronstadt, è assolutamente controcorrente rispetto alle posizioni classiche invalse nel marxismo rivoluzionario. La pochezza, sotto tutti i profili, di chi continua a ripetere che la repressione di Kronstadt fu una tragica necessità” si evidenzia ancor più per contrasto con il giudizio solidale con gli insorti che viene dalla corrente del nuovo marxismo rivoluzionario. Due insegnamenti in particolare ci vengono offerti a questo proposito) dal giudizio di Dario Renzi: se come speriamo di essere riusciti a dimostrare quella di Kronstadt fu una rivoluzione socialista, allora la sua repressione ad opera dei bolscevichi fu un crimine contro il socialismo e la rivoluzione, e, se la repressione avvenne in nome e nell’interesse del mantenimento del potere da parte dei bolscevichi, allora da essa possiamo estrarre fondamentali ragioni per la critica della politica, anche di quella rivoluzionaria Queste caratterizzazioni critiche sono la base sulla quale è possibile cogliere insegnamenti a positivo, per saper estrarre dalla rivoluzione di Kronstadt il suo contributo al socialismo, così come i suoi limiti.

La proclamazione della repubblica di Kronstadt nella primavera del ‘17 non fu un escamotage per prendere le distanze dal soviet di Pietrogrado, allora orientato su posizioni moderate; che vi fosse anche questo può essere, ma non era l’elemento preponderante. Quella scelta rappresentava qualcosa di più profondo, cioè una tensione anticentralista e federativa che è al contempo espressione della diffidenza verso un’eccessiva concentrazione di potere nell’apparato centrale dello Stato; in questo senso da quella scelta di Kronstadt possiamo estrarre una tensione antistatalista che la rivoluzione socialista deve assumere al fine di disarticolare e rendere più leggero possibile lo Stato, perché possa essere uno Stato-non Stato) che non si estingua semplicemente all’estinguersi delle classi, ma sia invece, pena la ricostruzione di classi o ceti dominanti per tramite dello Stato, predisposto ad estinguersi al più presto possibile, facendosi assorbire dalla società civile.

Un altro aspetto da sottolineare è il valore della preparazione della rivoluzione. Molti storiografi della rivoluzione di Kronstadt , nello smentire le accuse bolsceviche secondo cui gli insorti sarebbero stati al servizio della reazione o avrebbero svolto un ruolo obiettivamente reazionario, insistono troppo nell’affermare il carattere spontaneo della rivoluzione di Kronstadt. Tale affermazione rischia di essere o un’ovvietà o un’inesattezza. Infatti, da un lato, nessuno può stabilire l’inizio della rivoluzione, se non le masse che decidono di mobilitarsi per la propria liberazione: nessuna eminenza grigia, nessun partito, né tantomeno uno Stato può decretare una rivoluzione, perché essa è un fatto agente che risponde a dinamiche obiettive nella società profonda. Se carattere spontaneo di una rivoluzione significa che le masse decidono di fare la rivoluzione, allora, sì, quella di Kronstadt, come ogni rivoluzione, fu spontanea. Ma questa, appunto, è un’affermazione talmente generale da essere in sostanza tautologica. Se si ritiene, invece, che quella di Kronstadt, a differenza di altre, sia stata una rivoluzione spontanea si commette un duplice errore: quello di ritenere che vi siano rivoluzioni dettate dall’alto, decise da entità esterne ai soggetti protagonisti e quello di non cogliere come nello specifico di Kronstadt varie correnti rivoluzionarie avessero lavorato per preparare o rafforzare la rivoluzione. In altri termini la rivoluzione di Kronstadt fu preparata dall’azione di differenti correnti rivoluzionarie, di matrice marxista, populista e anarchica e tra queste dobbiamo inserire, sub specie particulare, il partito bolscevico, prima, gran parte dei militanti bolscevichi isolani, poi.

È chiaro che non si può fare un segno di eguale tra esse: una cosa sono il radicamento dei socialrivoluzionari massimalisti e l’ardore che misero nel criticare quella che chiamavano “commissariocrazia”, altro ciò che orientò l’attività del partito bolscevico, proteso alla detenzione del potere con il terrore rosso. Ma la rivendicazione: “Tutto il potere ai Soviet e non ai partiti!”, aspetto centrale della volontà di autogoverno, se era stata lanciata dai socialrivoluzionari massimalisti e condivisa dagli anarchici, era in sintonia con la consegna centrale dei bolscevichi sfociata dalle Tesi di aprile. Certo, i bolscevichi nella loro involuzione statalista correggeranno la consegna, argomentando che non potesse esistere potere sovietico senza il loro partito, ma Tutto il potere ai soviet!” era la parola d’ordine che ne aveva accompagnato la crescita tumultuosa e che aveva marcato l’adesione o l’appoggio di milioni di persone. Questo spiega anche perché una grande parte degli aderenti al partito bolscevico di Kronstadt ne uscirà nel fuoco dell’insurrezione del marzo 1921. Se dunque alle forze rivoluzionarie di Kronstadt va riconosciuto, pur con differenze molto accentuate il merito della preparazione della rivoluzione del ‘21, ad esse dovremo riferirci anche per individuare carenze e limiti di quell’esperienza. Mentre assumiamo il punto di vista degli insorti, schierandoci centro il partito bolscevico e rivendicando la rivoluzione di Kronstadt, proprio per questo, anzi, non possiamo sottacere i limiti di quella rivoluzione e della sua direzione composita.

Un primo aspetto sta nella mancata considerazione della socializzazione come aspetto centrale, laddove i 15 punti quando esulano da aspetti più direttamente inerenti l’autogoverno, si limitano a rivendicazioni assai elementari, non proponendo nemmeno l’estensione di quell’inizio larvale di socializzazione che a Kronstadt, pur contraddittoriamente, si era dato. Ma il limite probabilmente più evidente della rivoluzione di Kronstadt non fu al suo interno, quanto nella sua mancata estensione territoriale. Fu un problema serissimo l’assenza di una direzione in grado di favorire l’estendersi della rivoluzione, combattendo colpo su colpo le calunnie dei bolscevichi e capace di spingere sulla strada di Kronstadt. Diciamo ciò non tanto e solo per muovere una critica all’inconseguenza su questo terreno da parte dei raggruppamenti che nell’Urss continentale sostenevano gli insorti, quanto per segnalare l'insostituibilità di una direzione conseguente della rivoluzione. Il che rimanda ancora una volta alle responsabilità dei bolscevichi per non aver voluto, né saputo accogliere la sfida di Kronstadt, da cui avrebbe potuto derivare una straordinaria energia per risollevare le sorti della rivoluzione russa e probabilmente cambiare il corso della storia