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giovedì 7 marzo 2013
domenica 7 ottobre 2012
P. Ferraris, "Le due libertà"
Pino FERRARIS
LE DUE LIBERTA'
("Una Città", n. 101, febb. 2002)
Per l’anarchico Malatesta libertà e autorità sono incompatibili, per il socialista Turati libertà e autorità, al fondo, si identificano. Per Merlino la libertà non può non fare i conti con la rappresentanza democratica, ma nello stesso tempo non c’è democrazia senza libertà e autonomia dei singoli e dei gruppi. L’attualità di un dibattito sulle due libertà nella crisi del fordismo. Intervento di Pino Ferraris.
Il 10 e 11 gennaio, in occasione dell’uscita del n. 100 di Una città, si è tenuto a Forlì un convegno dal titolo “Le due libertà”, a cui hanno partecipato Pietro Adamo, Luca Baccelli, Nico Berti, Aldo Bonomi, Guido Montani, Pierpaolo Poggio, Andrea Ranieri, Gianni Sofri, Fabrizio Tonello, Nadia Urbinati. Pubblichiamo l’intervento introduttivo di Pino Ferraris.
Voglio subito precisare che questo mio intervento non vuole e non può essere un contributo di ricostruzione storiografica. Il richiamo al passato è esplicitamente sottomesso all’urgenza del tentativo di rischiarare alcuni problemi del presente.
Il riferimento alla discussione tra Saverio Merlino e Errico Malatesta su anarchia e democrazia nel 1897, il richiamo alla polemica tra Merlino e Filippo Turati su collettivismo, lotta di classe e ministerialismo nel 1901 potrebbero rappresentare l’accenno a quello che sarebbe un ben più impegnativo e suggestivo lavoro: mettere in luce la poliedrica ricchezza del dibattito socialista nella fine dell’800 confrontando i tre modi concreti di vivere e di pensare la relazione tra socialismo, libertà e democrazia in questi tre esponenti di spicco: l’anarchico Errico Malatesta, il socialista liberale ante-litteram Saverio Merlino e il socialista democratico Filippo Turati.
Non è certo quello che sono in grado di fare. Mi limiterò a trarre dalla trama di antiche polemiche giornalistiche spunti personali che possono toccare problemi ancora vivi, come ad esempio il rapporto tra libertà e democrazia o la lotta anti-autoritaria di libertà.
Una considerazione preliminare: l’uso del diverso aggettivo (libertario, liberale, democratico) per connotare il sostantivo socialismo incide in profondità sui caratteri, sulla qualità del sostantivo stesso. Sono socialismi molto diversi che si confrontano.
Dura un anno la polemica tra Merlino e Malatesta su anarchia e democrazia: dal gennaio 1897 al gennaio 1898.
Per Merlino questo scontro con l’amico e il compagno di tante battaglie comuni segna il suo esplicito distacco dalla corrente anarchica nella quale aveva militato per venti anni.
L’ avvio del dibattito scaturisce dalla acuta percezione da parte di Merlino del fatto che nel clima reazionario e illiberale di quegli anni matura la forte esigenza della difesa delle libertà politiche, e che questa azione di difesa deve avvenire anche attraverso l’impegno elettorale e parlamentare.
Merlino invita gli anarchici ad abbandonare il loro rigido astensionismo che rischia di isolarli in una posizione di sterile testimonianza.
Egli prende contemporaneamente le distanze dai socialisti parlamentari e statalisti che si illudono, scrive, “di poter far breccia a colpi di schede nella cittadella borghese e conquistarla”.
Crede di poter proporre una posizione intermedia che colga il meglio dell’ipotesi anarchica e tenga conto degli aspetti positivi della proposta socialdemocratica.
La risposta che viene da Errico Malatesta è intransigente e rigorosa: la partecipazione al voto non è una questione tattica, ma comporta la rinunzia a “tutto intero il programma anarchico”.
Raccogliendo ed estremizzando le riserve e le critiche del liberalesimo alla democrazia, egli ricorda come la democrazia rappresentativa non sia affatto il luogo che raccoglie e conserva le libertà, ma il contesto nel quale si alimenta l’autoritarismo illiberale: il potere che scende dall’Alto in nome del basso, in nome e per conto della sovranità popolare, è un potere particolarmente invasivo ed esigente. Il socialismo di stato concede dall’alto proprio in quanto riesce a sostituirsi all’esperienza di libertà, alla spontaneità sociale del basso.
Non vi può essere mediazione nella differenza sostanziale che separa le due posizioni: o autorità o libertà, coazione o consenso, obbligatorietà o volontarietà.
Sono alternativi i due modi di lotta politica: quello di coloro che vogliono conquistare i pubblici poteri e quello di coloro che vogliono abolire il governo e non già occuparlo.
Saverio Merlino cerca di incalzare Errico Malatesta in quanto anarchico non individualista, in quanto anarchico socialista che deve mediare il radicalismo delle libertà e delle autonomie con i limiti necessari che provengono dalle forme di organizzazione della convivenza sociale.
Un pensiero libertario socialista non può, secondo Merlino, evitare di fare i conti realisticamente con la forma della rappresentanza, con il principio di maggioranza, con la divisione del lavoro, con quei germi di autorità che fermentano dentro la democrazia: non si può restare ad essi indifferenti, occorre controllarli, limitarli, neutralizzarli.
Tra la perfetta armonia anarchica delle volontà e il dispotismo autoritario vi sono forme intermedie nelle quali l’espansione delle libertà individuali può convivere con la necessaria gestione delegata degli interessi generali e indivisibili della società.
Il rischio oligarchico, che non è solo nei parlamenti ma anche all’interno delle associazioni, deve essere bilanciato accentuando al massimo la forma federativa e i contenuti libertari da far vivere dentro la democrazia. Non c’è pacifica convivenza e tantomeno scontata complementarietà tra libertà e democrazia; la cosiddetta liberal-democrazia non è uno stato solido, ma un equilibrio molto instabile.
La difesa giuridica e le garanzie dei diritti di libertà sono importanti ma da sole non reggono se la libertà non vive direttamente esercitata nelle esperienze delle persone e dei raggruppamenti.
Il “riformismo rivoluzionario” cui Merlino si richiamava consisteva proprio nell’affermazione del ruolo propulsivo della azione extra-istituzionale ai fini stessi del graduale riformismo sociale e dell’evoluzione istituzionale.
Nella successiva polemica con Filippo Turati l’argomentazione di Saverio Merlino si svolge con acuto buon senso e viva consapevolezza della realtà, ma nonostante ciò suscita uno scatto di incomprensibile violenza nel suo interlocutore.
Ciò che Turati sembra percepire come intollerabile minaccia è il richiamo di Merlino alla spontaneità sociale, alle iniziative autonome, all’esercizio diretto di libertà civili. Questi confusi richiami, secondo Turati, manifestano la pericolosa persistenza di uno “spirito anarcoide” che non deve essere importato nel partito, ma rispetto al quale c’è la necessità di “epurarci e disciplinarci”.
Per Turati la libertà è ben altra cosa dell’impulsività e della irrazionalità delle folle incolte ed arretrate, la libertà si identifica con il giusto disegno che risponde ai veri interessi delle masse; disegno che solo l’élite è in grado di riconoscere e di imporre. In questa logica la “vera” libertà non solo non è incompatibile ma coincide con l’autorità.
Il dibattito polemico di Merlino con Turati parte da un lungo e impegnativo articolo che il leader socialista pubblica su Critica Sociale il 16 luglio 1901. Proprio all’indomani dell’eccidio di Berra da parte della truppa che ha sparato contro i contadini ferraresi, subito dopo che il governo stesso ha difeso l’operato dei militari, Turati, senza indugi, scende in campo a difendere il sostegno parlamentare dei socialisti al governo Zanardelli che, per la prima volta, egli scrive, apre un periodo di consolidamento della libertà e del rispetto della legge.
L’intervento di Turati è direttamente politico ma con pretese di dottrina. Egli prende l’avvio da molto lontano, dai “cardini della dottrina socialista”: il collettivismo e la lotta di classe.
Solo al paragrafo sei giunge infine a parlare dei “fatti di Berra” (tre morti e 23 feriti) considerati però come un “episodio fugace per quanto tristissimo” davanti al quale non occorre innestare “facili volate retoriche” o cedere agli “impulsi della cieca passione”.
Egli sostiene che la continuazione del sostegno socialista al governo non è frutto di un cedimento ministerialista, ma ribadisce una scelta che ha come posta in gioco “la libertà, questa grande redentrice”.
Le polemiche, i dibattiti interni al partito socialista in questo avvio dell’età giolittiana sono molto accesi e Turati è in minoranza proprio in casa sua, a Milano.
Quale era la libertà che ad ogni costo voleva difendere Turati?
Carlo Rosselli tracciando un affettuoso, commosso e lucido profilo di Filippo Turati subito dopo la sua morte accenna all’incomprensione delle giovani generazioni nei confronti di quella transizione di inizio secolo verso il ministerialismo che Turati impone in nome della libertà. “C’era la libertà -commenta Rosselli- è vero, ma quale libertà? Essa non si presentava loro (ai giovani) come il coronamento di un gran moto di popolo, o come conquista lenta ma inarrestabile per pressione di masse coscienti; ma come elargizione dall’alto, come concessione graziosa, fatta più per interesse dinastico… che per necessità storica”. In realtà Turati vede la libertà soprattutto come libertà politica di organizzazione e di propaganda, come lo spazio vitale per costruire una élite colta capace di organizzare nel basso e di rappresentare verso l’alto le masse ancora arretrate sempre oscillanti tra l’inerzia e l’impulsività.
Il democratico Filippo Turati, organizzatore di rappresentanza popolare per influire sull’azione riformatrice dello stato, non può certo essere accusato di particolari sensibilità libertarie e forse neanche liberali.
Le critiche che Saverio Merlino rivolge a Turati cercano di andare alla radice, di toccare alcuni problemi di fondo come quello del collettivismo, cioè dell’ipotesi di statizzazione integrale dell’economia, che egli ritiene insieme utopica e pericolosa per le insidie di un possibile universo di autoritarismo burocratico ad essa collegato.
L’accusa principale che gli rivolge è quella di realizzare ed esasperare una frattura micidiale tra un rigido ed altisonante frasario ideologico marxista (collettivismo e lotta di classe) e uno scambio politico di bassissimo livello tra protezione ministeriale di interessi corporativi e produzione di consenso popolare incondizionato e subalterno alla classe politica di governo.
Merlino contesta questo tipo di ministerialismo che si vuole giustificare con la necessità di ottenere una “tregua della libertà”.
In nome della libertà esterna di fare propaganda -incalza- voi perdete la “libertà interna” cioè il sentimento dei propri diritti e la volontà di farli valere. I socialisti sono da rimproverare perché insieme ai voti hanno dato al governo anche la loro anima, cioè la loro autonomia, il distacco critico, la capacità propria di saper comunque ottenere riforme per forza di popolo e non solo per concessione di governo. Che razza di libertà è quella che può praticare, per grazia di governo, un popolo ammansito, subalterno e passivo?
Le repliche di Turati sono sprezzanti e denigratorie: Merlino sarebbe un anarchico di lungo corso infiltrato nella sezione socialista di Napoli per introdurre “il suo bagaglio di anarchismo raddolcito, riformista, piccolo-borghese e dichiaratamente anti-collettivista…”.
E’ inquietante ricordare i modi, i mezzi, i toni con cui i socialisti autoritari di partito, i Bissolati, i Turati, Antonio Labriola, isolano, diffamano, annullano la volontà di presenza politica attiva e dialogante di Saverio Merlino. Già in quegli anni nella pratica e nella cultura del partito socialista si poteva vedere all’opera una tendenza schiettamente illiberale.
Con gli anni della Prima guerra mondiale, e subito dopo con l’affermarsi del bolscevismo russo accanto alla tradizione della socialdemocrazia tedesca, la politica a sinistra mostra un volto solo: quello dell’autorità, della statualità.
Scompare l’idea stessa di una trasformazione della società che possa avvenire attraverso processi di politicizzazione, di produzione di coscienza dall’interno dell’esperienza sociale di lavoro e di vita e nel corso dell’azione diretta di grandi masse. Con la militarizzazione della politica diventa dogma la concezione dispregiativa della massa come irrimediabilmente incompetente, cieca ed amorfa, come materia prima umana, “truppa”, oggetto della manipolazione ideologica e della mobilitazione amministrate dagli “stati maggiori”.
All’interno delle organizzazioni così come nei sistemi di governo si estende il contagio della democrazia autoritaria.
E’ difficile, richiede un esercizio eccezionale di immaginazione da parte delle nuove generazioni, riuscire a percepire da quali lontananze e da quali profondità provenga l’insofferenza autoritaria verso le libertà, le autonomie e la spontaneità nella tradizione che fu maggioritaria e vincente dentro il socialismo.
Il richiamo a questi vecchi dibattiti da un lato ci ricorda le radici antiche delle impotenze che gravano ancora dentro il presente, dall’altro rimette nel circuito della cultura quelle che furono le altre ragioni del socialismo libertario, del socialismo liberale, aiutando a reinventare una tradizione pluralista e a rinnovare una memoria che sia più utile a costruire futuro.
Mi sembra che meriti una riflessione l’atteggiamento apparentemente contraddittorio di Francesco Saverio Merlino.
Il riferimento alla discussione tra Saverio Merlino e Errico Malatesta su anarchia e democrazia nel 1897, il richiamo alla polemica tra Merlino e Filippo Turati su collettivismo, lotta di classe e ministerialismo nel 1901 potrebbero rappresentare l’accenno a quello che sarebbe un ben più impegnativo e suggestivo lavoro: mettere in luce la poliedrica ricchezza del dibattito socialista nella fine dell’800 confrontando i tre modi concreti di vivere e di pensare la relazione tra socialismo, libertà e democrazia in questi tre esponenti di spicco: l’anarchico Errico Malatesta, il socialista liberale ante-litteram Saverio Merlino e il socialista democratico Filippo Turati.
Non è certo quello che sono in grado di fare. Mi limiterò a trarre dalla trama di antiche polemiche giornalistiche spunti personali che possono toccare problemi ancora vivi, come ad esempio il rapporto tra libertà e democrazia o la lotta anti-autoritaria di libertà.
Una considerazione preliminare: l’uso del diverso aggettivo (libertario, liberale, democratico) per connotare il sostantivo socialismo incide in profondità sui caratteri, sulla qualità del sostantivo stesso. Sono socialismi molto diversi che si confrontano.
Dura un anno la polemica tra Merlino e Malatesta su anarchia e democrazia: dal gennaio 1897 al gennaio 1898.
Per Merlino questo scontro con l’amico e il compagno di tante battaglie comuni segna il suo esplicito distacco dalla corrente anarchica nella quale aveva militato per venti anni.
L’ avvio del dibattito scaturisce dalla acuta percezione da parte di Merlino del fatto che nel clima reazionario e illiberale di quegli anni matura la forte esigenza della difesa delle libertà politiche, e che questa azione di difesa deve avvenire anche attraverso l’impegno elettorale e parlamentare.
Merlino invita gli anarchici ad abbandonare il loro rigido astensionismo che rischia di isolarli in una posizione di sterile testimonianza.
Egli prende contemporaneamente le distanze dai socialisti parlamentari e statalisti che si illudono, scrive, “di poter far breccia a colpi di schede nella cittadella borghese e conquistarla”.
Crede di poter proporre una posizione intermedia che colga il meglio dell’ipotesi anarchica e tenga conto degli aspetti positivi della proposta socialdemocratica.
La risposta che viene da Errico Malatesta è intransigente e rigorosa: la partecipazione al voto non è una questione tattica, ma comporta la rinunzia a “tutto intero il programma anarchico”.
Raccogliendo ed estremizzando le riserve e le critiche del liberalesimo alla democrazia, egli ricorda come la democrazia rappresentativa non sia affatto il luogo che raccoglie e conserva le libertà, ma il contesto nel quale si alimenta l’autoritarismo illiberale: il potere che scende dall’Alto in nome del basso, in nome e per conto della sovranità popolare, è un potere particolarmente invasivo ed esigente. Il socialismo di stato concede dall’alto proprio in quanto riesce a sostituirsi all’esperienza di libertà, alla spontaneità sociale del basso.
Non vi può essere mediazione nella differenza sostanziale che separa le due posizioni: o autorità o libertà, coazione o consenso, obbligatorietà o volontarietà.
Sono alternativi i due modi di lotta politica: quello di coloro che vogliono conquistare i pubblici poteri e quello di coloro che vogliono abolire il governo e non già occuparlo.
Saverio Merlino cerca di incalzare Errico Malatesta in quanto anarchico non individualista, in quanto anarchico socialista che deve mediare il radicalismo delle libertà e delle autonomie con i limiti necessari che provengono dalle forme di organizzazione della convivenza sociale.
Un pensiero libertario socialista non può, secondo Merlino, evitare di fare i conti realisticamente con la forma della rappresentanza, con il principio di maggioranza, con la divisione del lavoro, con quei germi di autorità che fermentano dentro la democrazia: non si può restare ad essi indifferenti, occorre controllarli, limitarli, neutralizzarli.
Tra la perfetta armonia anarchica delle volontà e il dispotismo autoritario vi sono forme intermedie nelle quali l’espansione delle libertà individuali può convivere con la necessaria gestione delegata degli interessi generali e indivisibili della società.
Il rischio oligarchico, che non è solo nei parlamenti ma anche all’interno delle associazioni, deve essere bilanciato accentuando al massimo la forma federativa e i contenuti libertari da far vivere dentro la democrazia. Non c’è pacifica convivenza e tantomeno scontata complementarietà tra libertà e democrazia; la cosiddetta liberal-democrazia non è uno stato solido, ma un equilibrio molto instabile.
La difesa giuridica e le garanzie dei diritti di libertà sono importanti ma da sole non reggono se la libertà non vive direttamente esercitata nelle esperienze delle persone e dei raggruppamenti.
Il “riformismo rivoluzionario” cui Merlino si richiamava consisteva proprio nell’affermazione del ruolo propulsivo della azione extra-istituzionale ai fini stessi del graduale riformismo sociale e dell’evoluzione istituzionale.
Nella successiva polemica con Filippo Turati l’argomentazione di Saverio Merlino si svolge con acuto buon senso e viva consapevolezza della realtà, ma nonostante ciò suscita uno scatto di incomprensibile violenza nel suo interlocutore.
Ciò che Turati sembra percepire come intollerabile minaccia è il richiamo di Merlino alla spontaneità sociale, alle iniziative autonome, all’esercizio diretto di libertà civili. Questi confusi richiami, secondo Turati, manifestano la pericolosa persistenza di uno “spirito anarcoide” che non deve essere importato nel partito, ma rispetto al quale c’è la necessità di “epurarci e disciplinarci”.
Per Turati la libertà è ben altra cosa dell’impulsività e della irrazionalità delle folle incolte ed arretrate, la libertà si identifica con il giusto disegno che risponde ai veri interessi delle masse; disegno che solo l’élite è in grado di riconoscere e di imporre. In questa logica la “vera” libertà non solo non è incompatibile ma coincide con l’autorità.
Il dibattito polemico di Merlino con Turati parte da un lungo e impegnativo articolo che il leader socialista pubblica su Critica Sociale il 16 luglio 1901. Proprio all’indomani dell’eccidio di Berra da parte della truppa che ha sparato contro i contadini ferraresi, subito dopo che il governo stesso ha difeso l’operato dei militari, Turati, senza indugi, scende in campo a difendere il sostegno parlamentare dei socialisti al governo Zanardelli che, per la prima volta, egli scrive, apre un periodo di consolidamento della libertà e del rispetto della legge.
L’intervento di Turati è direttamente politico ma con pretese di dottrina. Egli prende l’avvio da molto lontano, dai “cardini della dottrina socialista”: il collettivismo e la lotta di classe.
Solo al paragrafo sei giunge infine a parlare dei “fatti di Berra” (tre morti e 23 feriti) considerati però come un “episodio fugace per quanto tristissimo” davanti al quale non occorre innestare “facili volate retoriche” o cedere agli “impulsi della cieca passione”.
Egli sostiene che la continuazione del sostegno socialista al governo non è frutto di un cedimento ministerialista, ma ribadisce una scelta che ha come posta in gioco “la libertà, questa grande redentrice”.
Le polemiche, i dibattiti interni al partito socialista in questo avvio dell’età giolittiana sono molto accesi e Turati è in minoranza proprio in casa sua, a Milano.
Quale era la libertà che ad ogni costo voleva difendere Turati?
Carlo Rosselli tracciando un affettuoso, commosso e lucido profilo di Filippo Turati subito dopo la sua morte accenna all’incomprensione delle giovani generazioni nei confronti di quella transizione di inizio secolo verso il ministerialismo che Turati impone in nome della libertà. “C’era la libertà -commenta Rosselli- è vero, ma quale libertà? Essa non si presentava loro (ai giovani) come il coronamento di un gran moto di popolo, o come conquista lenta ma inarrestabile per pressione di masse coscienti; ma come elargizione dall’alto, come concessione graziosa, fatta più per interesse dinastico… che per necessità storica”. In realtà Turati vede la libertà soprattutto come libertà politica di organizzazione e di propaganda, come lo spazio vitale per costruire una élite colta capace di organizzare nel basso e di rappresentare verso l’alto le masse ancora arretrate sempre oscillanti tra l’inerzia e l’impulsività.
Il democratico Filippo Turati, organizzatore di rappresentanza popolare per influire sull’azione riformatrice dello stato, non può certo essere accusato di particolari sensibilità libertarie e forse neanche liberali.
Le critiche che Saverio Merlino rivolge a Turati cercano di andare alla radice, di toccare alcuni problemi di fondo come quello del collettivismo, cioè dell’ipotesi di statizzazione integrale dell’economia, che egli ritiene insieme utopica e pericolosa per le insidie di un possibile universo di autoritarismo burocratico ad essa collegato.
L’accusa principale che gli rivolge è quella di realizzare ed esasperare una frattura micidiale tra un rigido ed altisonante frasario ideologico marxista (collettivismo e lotta di classe) e uno scambio politico di bassissimo livello tra protezione ministeriale di interessi corporativi e produzione di consenso popolare incondizionato e subalterno alla classe politica di governo.
Merlino contesta questo tipo di ministerialismo che si vuole giustificare con la necessità di ottenere una “tregua della libertà”.
In nome della libertà esterna di fare propaganda -incalza- voi perdete la “libertà interna” cioè il sentimento dei propri diritti e la volontà di farli valere. I socialisti sono da rimproverare perché insieme ai voti hanno dato al governo anche la loro anima, cioè la loro autonomia, il distacco critico, la capacità propria di saper comunque ottenere riforme per forza di popolo e non solo per concessione di governo. Che razza di libertà è quella che può praticare, per grazia di governo, un popolo ammansito, subalterno e passivo?
Le repliche di Turati sono sprezzanti e denigratorie: Merlino sarebbe un anarchico di lungo corso infiltrato nella sezione socialista di Napoli per introdurre “il suo bagaglio di anarchismo raddolcito, riformista, piccolo-borghese e dichiaratamente anti-collettivista…”.
E’ inquietante ricordare i modi, i mezzi, i toni con cui i socialisti autoritari di partito, i Bissolati, i Turati, Antonio Labriola, isolano, diffamano, annullano la volontà di presenza politica attiva e dialogante di Saverio Merlino. Già in quegli anni nella pratica e nella cultura del partito socialista si poteva vedere all’opera una tendenza schiettamente illiberale.
Con gli anni della Prima guerra mondiale, e subito dopo con l’affermarsi del bolscevismo russo accanto alla tradizione della socialdemocrazia tedesca, la politica a sinistra mostra un volto solo: quello dell’autorità, della statualità.
Scompare l’idea stessa di una trasformazione della società che possa avvenire attraverso processi di politicizzazione, di produzione di coscienza dall’interno dell’esperienza sociale di lavoro e di vita e nel corso dell’azione diretta di grandi masse. Con la militarizzazione della politica diventa dogma la concezione dispregiativa della massa come irrimediabilmente incompetente, cieca ed amorfa, come materia prima umana, “truppa”, oggetto della manipolazione ideologica e della mobilitazione amministrate dagli “stati maggiori”.
All’interno delle organizzazioni così come nei sistemi di governo si estende il contagio della democrazia autoritaria.
E’ difficile, richiede un esercizio eccezionale di immaginazione da parte delle nuove generazioni, riuscire a percepire da quali lontananze e da quali profondità provenga l’insofferenza autoritaria verso le libertà, le autonomie e la spontaneità nella tradizione che fu maggioritaria e vincente dentro il socialismo.
Il richiamo a questi vecchi dibattiti da un lato ci ricorda le radici antiche delle impotenze che gravano ancora dentro il presente, dall’altro rimette nel circuito della cultura quelle che furono le altre ragioni del socialismo libertario, del socialismo liberale, aiutando a reinventare una tradizione pluralista e a rinnovare una memoria che sia più utile a costruire futuro.
Mi sembra che meriti una riflessione l’atteggiamento apparentemente contraddittorio di Francesco Saverio Merlino.
Nel 1897 Merlino in nome della “difesa delle libertà politiche” richiama il radicalismo libertario di Malatesta al realismo della battaglia democratica.
Nel 1901 quello stesso Merlino contesta a Turati il diritto di invocare la difesa della libertà rimanendo all’interno dell’autoreferenzialità della mera sfera politica.
Non è incomprensibile e incoerente il comportamento di Saverio Merlino.
Quante volte noi stessi siamo stati portati al doppio movimento di difesa e di critica della democrazia?
Questi atteggiamenti scaturiscono dall’ambivalenza della stessa democrazia, che sempre si ripropone come il terreno di apertura di spazi possibili di libertà, ma anche come il luogo nel quale può avvenire l’esproprio autoritario delle nostre autonomie. L’uomo democratico si mostra oggi atomizzato, apatico e dipendente, mentre noi sappiamo che è stato e può essere attivo, cooperante e libero.
Il nocciolo vitale e progressivo della democrazia sta in gran parte fuori dell’ambito circoscritto della democrazia stessa, se per democrazia intendiamo riferirci allo spazio che definisce il chi e il come del governo.
Si commette un errore grave, e quasi sempre lo si commette a sinistra, quando si pretende di affermare che la libertà c’è in quanto è realizzata nella democrazia, nelle regole della rappresentanza e del gioco politico.
Non è la circolazione delle élites al potere che caratterizza e qualifica una società come società libera, ma è piuttosto la presenza in essa di singoli cittadini liberi e di associazioni indipendenti. La visione e la passione anche semplicemente liberali di cogliere e stimolare, arricchire e valorizzare tutto ciò che vive come autodeterminazione e capacità del far da sé al di là della circonferenza della statualità rappresentano l’anima mancante della tradizione del socialismo maggioritario e del presente impegno a sinistra.
Una ulteriore breve osservazione mi viene suggerita dal rigore polemico di Errico Malatesta che, nella discussione con Merlino, non cede di un millimetro sulla proposizione della libertà come esercizio costante di pensiero e di azione antiautoritari. Egli non perde mai il nesso essenziale di stringente e radicale opposizione tra libertà e autorità: dove c’è autorità cade la libertà, affermare la libertà significa infrangere l’autorità.
La storia delle lotte di libertà va di pari passo con l’incessante riprodursi dei meccanismi che minacciano libertà acquisite e che generano forme nuove di illibertà.
In noi oggi sembra prevalere una illusione di pacifico consumo di diritti di libertà; pensiamo sovente di poterci concedere il lusso della libera circolazione all’interno di spazi garantiti rispetto ad una autorità per così dire allontanata e addomesticata.
La libertà come una continua conquista che si realizza sulla frontiera, nella frizione e nell’urto contro le muraglie dei vincoli interni ed esterni di autorità; la libertà che è impegno di critica costante, coraggio della disubbidienza e della rivolta, appare oggi cosa sempre più difficile da pensare e ancor più da realizzare in uno stile di vita della personalità libera.
Che dire del vecchio John Stuart Mill che scorgeva nel pensiero eretico e nel comportamento eccentrico il lievito indispensabile di una società schiettamente liberale?
Scriveva Albert Camus: “Mi rivolto dunque siamo”. Dal singolare al plurale. Partendo da ognuno si può arrivare a tutti.
Nella tradizione del socialismo anarchico la radicalizzazione antiautoritaria della affermazione di libertà individuale richiama sia l’agire cooperativo sia il fine egualitario che spezza divisioni sociali e barriere gerarchiche.
Le autonomie personali e sociali però vivono e si espandono se autonomia, nel senso letterale del termine, significa dare legge a se stessi e cioè porre dentro di sé quel limite a se stessi che apre al riconoscimento dell’altro. Le autonomie chiuse e confliggenti evocano immediatamente l’opposto, l’eteronomia, chiamano l’intervento del Terzo, ripropongono il ritorno del Centro, dello Stato mediatore.
Nel 1901 quello stesso Merlino contesta a Turati il diritto di invocare la difesa della libertà rimanendo all’interno dell’autoreferenzialità della mera sfera politica.
Non è incomprensibile e incoerente il comportamento di Saverio Merlino.
Quante volte noi stessi siamo stati portati al doppio movimento di difesa e di critica della democrazia?
Questi atteggiamenti scaturiscono dall’ambivalenza della stessa democrazia, che sempre si ripropone come il terreno di apertura di spazi possibili di libertà, ma anche come il luogo nel quale può avvenire l’esproprio autoritario delle nostre autonomie. L’uomo democratico si mostra oggi atomizzato, apatico e dipendente, mentre noi sappiamo che è stato e può essere attivo, cooperante e libero.
Il nocciolo vitale e progressivo della democrazia sta in gran parte fuori dell’ambito circoscritto della democrazia stessa, se per democrazia intendiamo riferirci allo spazio che definisce il chi e il come del governo.
Si commette un errore grave, e quasi sempre lo si commette a sinistra, quando si pretende di affermare che la libertà c’è in quanto è realizzata nella democrazia, nelle regole della rappresentanza e del gioco politico.
Non è la circolazione delle élites al potere che caratterizza e qualifica una società come società libera, ma è piuttosto la presenza in essa di singoli cittadini liberi e di associazioni indipendenti. La visione e la passione anche semplicemente liberali di cogliere e stimolare, arricchire e valorizzare tutto ciò che vive come autodeterminazione e capacità del far da sé al di là della circonferenza della statualità rappresentano l’anima mancante della tradizione del socialismo maggioritario e del presente impegno a sinistra.
Una ulteriore breve osservazione mi viene suggerita dal rigore polemico di Errico Malatesta che, nella discussione con Merlino, non cede di un millimetro sulla proposizione della libertà come esercizio costante di pensiero e di azione antiautoritari. Egli non perde mai il nesso essenziale di stringente e radicale opposizione tra libertà e autorità: dove c’è autorità cade la libertà, affermare la libertà significa infrangere l’autorità.
La storia delle lotte di libertà va di pari passo con l’incessante riprodursi dei meccanismi che minacciano libertà acquisite e che generano forme nuove di illibertà.
In noi oggi sembra prevalere una illusione di pacifico consumo di diritti di libertà; pensiamo sovente di poterci concedere il lusso della libera circolazione all’interno di spazi garantiti rispetto ad una autorità per così dire allontanata e addomesticata.
La libertà come una continua conquista che si realizza sulla frontiera, nella frizione e nell’urto contro le muraglie dei vincoli interni ed esterni di autorità; la libertà che è impegno di critica costante, coraggio della disubbidienza e della rivolta, appare oggi cosa sempre più difficile da pensare e ancor più da realizzare in uno stile di vita della personalità libera.
Che dire del vecchio John Stuart Mill che scorgeva nel pensiero eretico e nel comportamento eccentrico il lievito indispensabile di una società schiettamente liberale?
Scriveva Albert Camus: “Mi rivolto dunque siamo”. Dal singolare al plurale. Partendo da ognuno si può arrivare a tutti.
Nella tradizione del socialismo anarchico la radicalizzazione antiautoritaria della affermazione di libertà individuale richiama sia l’agire cooperativo sia il fine egualitario che spezza divisioni sociali e barriere gerarchiche.
Le autonomie personali e sociali però vivono e si espandono se autonomia, nel senso letterale del termine, significa dare legge a se stessi e cioè porre dentro di sé quel limite a se stessi che apre al riconoscimento dell’altro. Le autonomie chiuse e confliggenti evocano immediatamente l’opposto, l’eteronomia, chiamano l’intervento del Terzo, ripropongono il ritorno del Centro, dello Stato mediatore.
Ritornando alle discussioni, alle ricerche, alle passioni di uomini e donne di tempi lontani e molto diversi dal nostro, non possiamo certo pensare di trovare soluzioni, ricette ai problemi del presente, possiamo però ricevere stimoli a porre questioni a lungo rimosse, a sollevare interrogativi elusi come appunto quello di una politica della libertà a sinistra, come quello del confronto e scontro fra due concezioni, due pratiche delle libertà nel presente.
Dalle tensioni contraddittorie che si esprimono nell’attualità vedo salire una necessaria nuova controversia radicale sulla libertà.
Mi sembra addirittura straripante la vocazione all’illegalismo di tutti i poteri forti che percepiscono e soffrono il principio di legalità come un indebito intralcio all’illimitata sovranità popolare e al dispiegarsi del libero mercato.
Qui si manifesta quella libertà di destra che Luigi Ferrajoli vede insorgere sia come assolutismo di maggioranza (legibus soluta) nella quale il richiamo ad investiture plebiscitarie tende ad incrinare i vincoli che garantiscono le libertà di tutti; sia come assolutismo di mercato (legibus solutus) che nella sua sregolatezza tende ad imporre il diritto del più forte e il privilegio monopolistico, spezzando e spazzando via l’ingombro dei diritti sociali e del diritto del lavoro. Il fatto che l’affermazione di queste libertà potestative e patrimoniali dei pochi possa tradursi come immaginario di liberazione per molti testimonia appunto la mancanza di una sfida politica e culturale alternativa giocata su questo terreno della libertà. Eppure i fermenti per costruire una alternativa di libertà esistono proprio in quella società dei lavori sconvolti, irriconoscibili e sconosciuti che sembra ormai scomparsa dall’orizzonte della sinistra. La lunga età del taylorismo fordista ha accentuato sino all’esasperazione il momento dell’eterodirezione nel lavoro, richiedendo in modo parossistico disciplina passiva ed esecuzione cieca.
Rispetto a questa radicale alienazione del lavoro costretto, il fordismo ha attivato una logica di risarcimento fuori dal lavoro con la crescita del reddito-consumo e con le tutele dello stato assistenziale. Dentro la sempre ricorrente tensione tra uguaglianza e libertà, nel corso del ‘900, l’eguaglianza, nella particolare versione dell’omologazione nel consumo di massa, si è affermata a scapito delle esigenze di autonomia e di libertà.
L’attuale crisi del fordismo sembra operare una diversa configurazione del binomio vincolo ed autonomia dentro il lavoro: si accentua l’elemento di autonomia pur dentro la dipendenza.
Penso alla fabbrica integrata ad automazione flessibile dove si richiede responsabilità ed iniziativa al lavoro avanzando la paradossale pretesa di una “autonomia in linea gerarchica”.
Penso anche a ciò che avviene nel nuovo articolarsi del mercato del lavoro flessibile, il lavoro autonomo, il lavoro parasubordinato.
In tutte queste situazioni di lavoro post-fordista si richiede di mobilitare una soggettività che contemporaneamente viene frenata e frustrata, si richiedono assunzioni di responsabilità senza riconoscere diritti, si sollecita l’autonomia sotto il vincolo dell’autorità.
E’ possibile stimolare l’iniziativa, il pensiero degli uomini e delle donne al lavoro, tenendo sotto controllo l’imprevedibile e fuorviante tentazione della libertà?
Forse lo scontro dentro al lavoro si sposta sempre più sul terreno delle libertà, delle autonomie.
La problematica delle due libertà non sta quindi soltanto all’interno delle elaborazioni culturali; a me sembra ormai di vederla in atto e operante dentro l’esperienza e nella realtà.
L’una si manifesta con prepotenza ed irruenza sospinta dai poteri alti, l’altra si agita inespressa nel sottosuolo della società.
Intanto a sinistra la parola libertà continua ad indicare una assenza, mentre la parola lavoro richiama soltanto antiche radici divelte.
Dalle tensioni contraddittorie che si esprimono nell’attualità vedo salire una necessaria nuova controversia radicale sulla libertà.
Mi sembra addirittura straripante la vocazione all’illegalismo di tutti i poteri forti che percepiscono e soffrono il principio di legalità come un indebito intralcio all’illimitata sovranità popolare e al dispiegarsi del libero mercato.
Qui si manifesta quella libertà di destra che Luigi Ferrajoli vede insorgere sia come assolutismo di maggioranza (legibus soluta) nella quale il richiamo ad investiture plebiscitarie tende ad incrinare i vincoli che garantiscono le libertà di tutti; sia come assolutismo di mercato (legibus solutus) che nella sua sregolatezza tende ad imporre il diritto del più forte e il privilegio monopolistico, spezzando e spazzando via l’ingombro dei diritti sociali e del diritto del lavoro. Il fatto che l’affermazione di queste libertà potestative e patrimoniali dei pochi possa tradursi come immaginario di liberazione per molti testimonia appunto la mancanza di una sfida politica e culturale alternativa giocata su questo terreno della libertà. Eppure i fermenti per costruire una alternativa di libertà esistono proprio in quella società dei lavori sconvolti, irriconoscibili e sconosciuti che sembra ormai scomparsa dall’orizzonte della sinistra. La lunga età del taylorismo fordista ha accentuato sino all’esasperazione il momento dell’eterodirezione nel lavoro, richiedendo in modo parossistico disciplina passiva ed esecuzione cieca.
Rispetto a questa radicale alienazione del lavoro costretto, il fordismo ha attivato una logica di risarcimento fuori dal lavoro con la crescita del reddito-consumo e con le tutele dello stato assistenziale. Dentro la sempre ricorrente tensione tra uguaglianza e libertà, nel corso del ‘900, l’eguaglianza, nella particolare versione dell’omologazione nel consumo di massa, si è affermata a scapito delle esigenze di autonomia e di libertà.
L’attuale crisi del fordismo sembra operare una diversa configurazione del binomio vincolo ed autonomia dentro il lavoro: si accentua l’elemento di autonomia pur dentro la dipendenza.
Penso alla fabbrica integrata ad automazione flessibile dove si richiede responsabilità ed iniziativa al lavoro avanzando la paradossale pretesa di una “autonomia in linea gerarchica”.
Penso anche a ciò che avviene nel nuovo articolarsi del mercato del lavoro flessibile, il lavoro autonomo, il lavoro parasubordinato.
In tutte queste situazioni di lavoro post-fordista si richiede di mobilitare una soggettività che contemporaneamente viene frenata e frustrata, si richiedono assunzioni di responsabilità senza riconoscere diritti, si sollecita l’autonomia sotto il vincolo dell’autorità.
E’ possibile stimolare l’iniziativa, il pensiero degli uomini e delle donne al lavoro, tenendo sotto controllo l’imprevedibile e fuorviante tentazione della libertà?
Forse lo scontro dentro al lavoro si sposta sempre più sul terreno delle libertà, delle autonomie.
La problematica delle due libertà non sta quindi soltanto all’interno delle elaborazioni culturali; a me sembra ormai di vederla in atto e operante dentro l’esperienza e nella realtà.
L’una si manifesta con prepotenza ed irruenza sospinta dai poteri alti, l’altra si agita inespressa nel sottosuolo della società.
Intanto a sinistra la parola libertà continua ad indicare una assenza, mentre la parola lavoro richiama soltanto antiche radici divelte.
lunedì 24 settembre 2012
P. Mattick, Socialismo del capitale e autonomia operaia
dall'Archvio "P. Mattick"
Dalla critica fin qui condotta si
può facilmente dedurre che la futura attività della classe operaia non si potrà
chiamare un «nuovo inizio», ma semplicemente un inizio.
Il secolo di lotta di classe
testè trascorso ha permesso l'acquisizione di
conoscenze dal valore teoretico inestimabile; ha avuto nobili parole
rivoluzionarie contro un capitalismo che pure si proclamava il sistema sociale
finale e ha messo in dubbio la convinzione operaia che la situazione di miseria
dei lavoratori fosse senza speranza. Ma la sua lotta concreta è rimasta
all'interno dei confini capitalistici: è stata, infatti, un'azione che mirava,
attraverso la mediazione dei dirigenti, solamente a sostituire dei padroni
malleabili a quelli troppo duri A.Pannekoek
La storia passata del movimento
operaio deve essere considerata solo come un preludio all'azione futura. E
benché questo preludio abbia già anticipato senza dubbio alcuni aspetti della
lotta da venire, è rimasto solo un'anticipazione, appunto, e non un riassunto di
quello che seguirà.
Il movimento operaio europeo è
scomparso cosi facilmente, perché la sua organizzazione non aveva una
prospettiva avanzata; i suoi membri sapevano o intuivano che non c'era spazio
per loro in un sistema socialista e la loro paura che la società di classe
cessasse di esistere era identica a quella degli altri gruppi privilegiati.
Capaci di funzionare solo nelle condizioni della società capitalistica, essi
vedevano sfavorevolmente la fine del capitali-smo; scegliere fra due modi di
morire non ha mai rallegrato nessuno. Il fatto che tali organizzazioni abbiano
un senso solo nel capitalismo, spiega anche la loro curiosissima concezione
della società socialista. Il loro «socialismo» era ed è un «socialismo» assai
somigliante al capitalismo; più che socialisti, essi sono dei capitalisti
«progressivi ». Tutte le loro teorie, da quella del revisionista «marxiano»
Bernstein a quelle del «socialismo di mer-cato» in voga oggi, non sono altro che
metodi per realizzare un migliore adattamento al capitalismo. Non c'è perciò da
stupirsi se un sistema di chiaro capitalismo di Stato quale quello esistente in
Russia è generalmente considerato da essi come un sistema di socialismo
realizzato o di transizione al socialismo. Le critiche contro il sistema russo
concernono, infatti, solo la mancanza di democrazia, oppure la cosiddetta
malizia o stupidità della sua burocrazia, e non sfiorano neppure la questione
che i rapporti di produzione attualmente esistenti in Russia non sono
sostanzialmente diversi da quelli degli altri paesi capitalistici, o il fatto
che gli operai russi non hanno nessuna voce in capitolo riguardo agli affari
economici e produttivi del loro paese e sono soggetti politicamente ed
economicamente a condizioni di sfruttamento come gli operai di ogni altra
nazione.
Benché la maggior parte degli
operai russi non si trovino più a fronteggiare, nella loro lotta per l'esistenza
e per migliori condizioni di vita, imprenditori privati, la loro attuale
condizione di soggezione dimostra che non è stata realizzata nemmeno la vecchia
aspirazione del movimento operaio alla sostituzione dei padroni cattivi con
altri più benevoli.
La situazione russa dimostra
anche che la scomparsa del capitalista privato non mette fine, da sola, alla
forma capitali-stica di sfruttamento che, in sostanza, continua a sussistere
anche quando il capitalista privato è stato trasformato o sostituito da
rappresentanti della Stato. In Russia continuano a sussistere la separazione
degli operai dai mezzi di produzione e, con essa, il dominio di classe. Con
l'aggiunta di un apparato di sfruttamento altamente centralizzato e senza
divergenze all'interno della dire-zione generale; il che rende molto più
difficile la lotta degli operai per i loro obiettivi. La Russia si rivela, cosi,
nient' altro che il modello di uno sviluppo capitalistico diverso ed espresso
con una terminologia nuova. I tentativi fatti per estendere l'auto-sufficienza
nazionale russa e imposta con la violenza come in tutti gli altri paesi
capitalistici, vengono oggi celebrati come tante tappe della «costruzione del
socialismo in un solo paese». L'ottimismo del movimento operaio, però, sembra
crescere dopo ogni sconfitta subita. Quanto più si approfondisce infatti la
differenziazione di classe in Russia, quanto più la classe dirigente riesce,
sopprimendo l'opposizione, a rendere più duro il suo sistema di sfruttamento;
quanto più la Russia partecipa alla concorrenza economica mondiale capitalistica
come una potenza imperialistica uguale alle altre; tanto più si ritiene che il
socialismo sia stato, in quel paese, pienamente realizzato. Allo stesso modo che
il movimento operaio era stato capace di considerare la marcia
dell'accumulazione capitalistica una tendenza verso il socialismo, cosi oggi
esso celebra questo avanzamento progressivo verso la barbarie come costruzione
graduale della nuova società!
Per quanto diviso da molti
disaccordi interni su varie questioni, il vecchio movimento ha, riguardo al
socialismo, una compatta concezione unitaria. L'astratto «Cartello generale» di
Hilferding, l'ammirazione di Lenin per il socialismo di guerra e per il servizio
postale tedesco, l'eternizzazione operata da Kautsky dell'economia del
valore-prezzo-denaro (mirante a rendere co-sciente ciò che nel capitalismo viene
compiuto ciecamente dalle leggi automatiche del mercato), il comunismo di guerra
di Trockij -contemplante alcuni meccanismi di domanda e offerta- e l'economia
istituzionale di Stalin: tutte queste concezioni hanno, come base comune,
l'accettazione della permanenza del sistema produttivo attuale e non fanno altro
che riflettere dei processi attualmente presenti nella società capitalistica.
Infatti, un «socialismo» di questo genere viene oggi discusso anche da famosi
economisti borghesi come Pigou, Hayek, Robbins, Keynes, per citarne solo alcuni,
alle cui pubblicazioni i socialisti attingono i loro materiali teorici. Vari
economisti borghesi inoltre da Marshall a Mitchell, dai neo-classici ai moderni
istituzionalisti si sono occupati del problema di come portare ordine nel
disordine del sistema capitalistico, secondo una direzione che è il
corrispettivo teoretico della tendenza, presente sul terreno pratico,
all'allargamento dell'intervento dello Stato nella società concorrenziale.
Processo questo, che sta alla base dell'afferma-zione del «New Deal », del
«Nazional-socialismo» e del «Bolscevismo», i vari nomi che designano i
differenti gradi e le specificità del processo di centralizzazione e di
concentrazione del sistema capitalistico.
E ormai quasi diventato un luogo
comune descrivere le incoerenze del movimento operaio come una drammatica
contraddizione tra mezzi e fini. Eppure una tale incoerenza non esiste affatto.
Il «socialismo» non è mai stato il « fine» del vecchio movimento operaio ma,
piuttosto, un semplice termine di copertura per un obiettivo completamente
diverso: la conquista, cioè, del potere politico come strumento per la
partecipazione al sur-plus creato in una società basata sulla divisione tra
classi dominanti e classi dominate. Questo era il fine che, a sua volta, ha
determinato i mezzi.
La questione dei mezzi e dei
fini, in realtà, deriva dalla separazione che, in una società divisa in classi,
esiste tra realtà e ideologia, ed è quindi artificiosa nella misura in cui non
può essere risolta senza l'eliminazione degli attuali rapporti di classe. Non
solo: essa è inoltre anche priva di senso, perché esiste solo nella teoria e non
nella realtà effettuale. Di fatto, le azioni delle classi e dei gruppi si
possono sempre spiegare sulla base dei rapporti di produzione esistenti nella
società. E quando le azioni non, corrispondono ai fini proclamati, significa che
esse non volevano raggiungere veramente quei fini, i quali invece riflettono o
una insoddisfazione incapace di tradursi in azione concreta, o il desiderio di
nascondere i fini reali Nessuna realtà di classe, infatti, può agire in maniera
sbagliata, in una maniera cioè, che non corrisponda alle forze sociali
determinanti, nonostante abbia infinite possibilità di pensare in maniera
sbagliata. Nel contesto della produzione sociale capitalistica, ogni classe
dipende dall'altra. Il loro antagonismo deriva proprio dalla loro identità
d'interessi. Finché questa società esisterà, non ci sarà alcuna possibilità di
scelta nell'azione, e solo al di fuori dei suoi confini sarà possibile
coordinare coscientemente mezzi e fini e trovare una vera unità tra teoria e
pratica.
Nella società capitalistica la
contraddizione tra mezzi e fini è solo apparente e, in realtà, serve solo a
coprire una pratica concreta non del tutto disarmonica con quello che si
propone. Per eliminare l'apparente incoerenza basta scoprire qual è il fine
reale che sta dietro a quello ideologico. Per fare un esempio pratico: se uno
crede che i sindacati considerano lo sciopero come un mezzo per ridurre i
profitti ed innalzare i salari, sarà sorpreso di scoprire che essi, quanto più
potenti erano e quanto più necessari si ponevano gli aumenti salariali, tanto
più riluttanti si sono mostrati ad usare lo strumento delle sciopero per il
raggiungimento dei loro obiettivi, ripiegando, invece, su mezzi meno appropriati
ai fini che si proponevano, come, ad esempio, l'arbitrato e le trattative
governative. La spiegazione di questa apparente contraddizione si trova nel
fatto che l'aumento ad ogni costo del salario non è più un fine dei sindacati;
essi non sono più, infatti, quello che erano all'inizio; il loro vero fine è,
ora, il mantenimento ad ogni costo del loro apparato organizzativo e per questo
obiettivo la tattica da loto usata è un mezzo molto più appropriato. Ma rivelare
apertamente il cambiamento della loro natura, significherebbe alienarsi gli
operai; cosi il fine mera-mente ideologico diventa un mezzo per il
raggiungimento del fine reale: ha, cioè, una funzione puramente strumentale nel
contesto di una attività realistica e ben integrata.
Ciononostante, il problema dei
mezzi e dei fini è stato molto discusso dal vecchio movimento operaio e questo
spiega, in parte, perché il vero carattere di questo movimento sia stato
compreso cosi in ritardo e perché siano fiorite tante illusioni circa la
possibilità di procedere ad una sua riforma. Il tentativo più importante in
questo senso fu fatto quando la rivoluzione russa del 1905 ruppe la «riduttiva
quotidianità» del lavoro politico che il vecchio movimento operaio portava
allora avanti, ponendo nuovamente sul tappeto la questione del cambiamento reale
della società. Ma anche in quella sua posizione di apparente rifiuto radicale
della società esistente, il vecchio movimento operaio rivelò, ancora una volta,
il suo innato carattere capitalistico. Appena Lenin si applicò, infatti, alla
soluzione del problema del potere, ritornò immediatamente nel campo dei
rivoluzionari borghesi. E questo non solo per l'arretratezza della Russia, ma
anche per tutto lo sviluppo teorico del socialismo occidentale, che non era
approdato a niente più che ad un'ulteriore esaltazione del carattere borghese
ereditato dalle prime rivoluzioni. La natura capitalistica del movimento operaio
era, inoltre, confermata dalla sua teoria economica che, sulla scia della
tendenza predominante fra gli economisti borghesi, concepiva sempre più i
problemi della società come problemi di distribuzione, cioè di mercato. Persino
l'attacco rivoluzionario contro i «revisionisti », che si trova
nell'Accumulazione del Capitale di Rosa Luxemburg rimane sul piano
stabilito dagli antagonisti. Anche Rosa Luxemburg ritrovava, infatti, i limiti
della società capitalistica soprattutto nella sua incapacità di realizzare il
plusvalore, e ciò per la limitatezza dei mercati. Per cui, anche per lei, era la
sfera della circolazione e non quella della produzione che veniva a giocare il
ruolo fondamentale e determinante per la vita o la morte del capitalismo.
Comunque, dalla sinistra
pre-bellica (che comprendeva la Luxemburg, Liebknecht, Pannekoek e Gorter),
insieme alle lotte concrete degli operai e, cioè, agli scioperi di massa
scoppiati sia nell'Ovest che nell'Est, scaturì durante e immediatamente dopo la
guerra un movimento organizzato in gruppi antiparlamentari e antisindacali che
espresse in vari paesi delle direttive veramente anticapitalistiche. Nonostante
le incoerenze e le insufficienze, questo movimento riuscì, fin dall'inizio, a
formulare delle posizioni di radicale antagonismo nei confronti del capitalismo
nella sua totalità, comprendente quindi anche il movimento operaio, che faceva
parte anch' esso del sistema. Individuando nella presa del potere da parte di un
partito una semplice sostituzione di sfruttatori, esso proclamava la necessità
del controllo diretto degli operai in prima persona su tutta quanta la società.
I vecchi slogans dell'abolizione delle classi, del sistema e del salario,
cessarono di essere mere formulazioni verbali e divennero gli obiettivi
immediati delle nuove organizzazioni. Lo scopo che questo movimento si
prefiggeva non era la creazione di un nuovo gruppo dirigente della società,
delegato ad agire «per conto degli operai » e perciò, con la possibilità di
usare questo potere anche contro di loro, ma l'instaurazione di
un'organizzazione della produzione che assicurasse agli operai la possibilità di
controllarla direttamente.
Questi gruppi' rifiutavano di
fare delle distinzioni fra i vari partiti e i vari sindacati, giudicandoli in
blocco residui di uno stadio passato di sviluppo, in quanto si limitavano a
lotte di gruppo all'interno della società capitalistica. Quello che a loro
interessava non era rivitalizzare le vecchie organizzazioni, bensì rendere
palese la necessità di organizzazioni dal carattere radicalmente diverso: delle
organizzazioni, cioè, di classe, capaci non solo di cambiare la società, ma di
organizzare anche la nuova società in maniera tale da rendere impossibile ogni
forma di sfruttamento. Ciò che oggi rimane di questo movimento ha trovato una
forma organizzativa permanente nei Gruppi dei comunisti consiliari. Essi
si considerano marxisti e perciò internazionalisti. Avendo capito che, oggi,
tutti i problemi sono problemi internazionali, essi si rifiutano di pensare in
termini nazionalistici e dichiarano che tutte le considerazioni specificamente
nazionali servono solo alle esigenze della concorrenza capitalistica. Nel loro
stesso interesse gli operai devono sviluppare ulteriormente le forze produttive;
il che può avvenire solo sulla base di un corretto internazionalismo. Questa
posizione, però, non trascura le specificità nazionali e, perciò, non persegue
l'obiettivo di elaborare una politica identica per i vari paesi. Ogni gruppo
nazionale deve basare la sua attività sull'analisi dell'ambiente in cui si trova
ad operare, in maniera del tutto autonoma dagli altri gruppi benché sia
auspicato il raggiungimento, ovunque sia possibile, di un coordinamento delle
attività mediante lo scambio di esperienze. Questi gruppi sono marxisti perché
non hanno ancora elaborato una scienza sociale di livello superiore a quella di
Marx, e perché i principi marxiani della ricerca scientifica sono ancora i più
realistici, i più capaci di sussumere le nuove esperienze risultanti dal
continuo sviluppo capitalistico. Il marxismo non è da loro concepito come un
sistema chiuso, ma come il livello concreto di una scienza sociale in via di
sviluppo, che può servire come teoria della lotta di classe pratica degli
operai. La funzione principale di queste organizzazioni consiste, così, nella
critica che non è più diretta, però, solo contro il capitalismo esistente ai
tempi di Marx, ma si estende anche a quello sviluppo del capitalismo che ha
preso il nome di «socialismo».
La critica e la propaganda sono
le sole attività pratiche possibili oggi e la loro sterilità è solo il riflesso
di una situazione manifestamente non rivoluzionaria. Il declino del vecchio
movimento operaio, comprese le difficoltà e perfino l'impossibilità di portarne
avanti uno nuovo, è una prospettiva deplorabile solo dal punto di vista del
vecchio movimento operaio; i Gruppi di comunisti consiliari non ne gioiscono,
anzi, se ne dispiacciono, ma prendono semplicemente atto della situazione,
tenendo per fermo che la scomparsa del movimento operaio organizzato non porta
alcun cambiamento nella struttura sociale, e che la lotta di classe deve
continuare, operando sulla base delle possibilità date.
Una classe nella quale si
concentrano gli interessi rivoluzionari della società, non appena si è sollevata
trova immediatamente nella sua stessa situazione il contenuto e il materiale
della propria attività rivoluzionaria: abbattere i nemici, prendere misure
imposte dalle necessità stesse della lotta. Le conseguenze delle sue proprie
azioni la spingono avanti. Essa non inizia indagini teoriche sui suoi compiti.
K.Marx
Perfino una società fascista non
può impedire alla lotta di classe di andare avanti, e anche gli operai fascisti
saranno costretti a cambiare i rapporti di produzione. In ogni caso, oggi non
siamo di fronte né ad una società fascista, né ad una società democratica,
perché l'una e l'altra non sono che stadi differenti della stessa società; né
più avanzati né più arretrati, ma solo differenti, risultando da cambiamenti
nelle forze di classe della società capitalistica che hanno la loro origine da
una serie di contraddizioni economiche.
I Gruppi di comunisti consiliari
sostengono, inoltre, che nelle condizioni attuali non è possibile che avvenga
nessun vero cambiamento sociale, se le forze anticapitalistiche non diventano
più forti di quelle che sostengono il capitalismo, e che è impossibile
organizzare forze anticapitalistiche di tali dimensioni all'interno dei rapporti
capitalistici. Dall'analisi della società attuale e dallo studio delle lotte di
classe precedenti, essi concludono che l'attività spontanea delle masse
scontente creerà, nel corso di ribellioni, le organizzazioni adatte alle
circostanze, le sole in grado di mettere fine, irrompendo dai confini delle
condizioni sociali, all'attuale assetto sociale. Il problema
dell'organizzazione, cosi com'è oggi discusso, viene considerato una questione
completamente oziosa, perché le fabbriche, le imprese pubbliche, i posti di
ristoro e gli stessi eserciti preparati per la guerra che sta per cominciare,
offrono già sufficientemente l'adito alla formazione di attive organizzazioni di
massa indistruttibili, qualunque sia il carattere assunto dalla società
capitalistica. Come trama organizzativa della nuova società viene proposta
l'organizzazione consiliare basata sull'industria e sul processo produttivo, con
un tempo di lavoro medio come misura della produzione, della riproduzione e
della distribuzione, insieme a tutti i provvedimenti utili ad assicurare
l'eguaglianza economica in condizioni di divi-sione del lavoro. Questo tipo di
società, si sostiene, sarà in grado di programmare la sua produzione in base ai
bisogni e alle esigenze del popolo.
I Gruppi sono approdati, come è
già stato detto, alla conclusione che una tale società può funzionare solo
attraverso la partecipazione diretta dei lavoratori a tutti i livelli
decisionali, e questa concezione del socialismo è irrealizzabile sulla base di
una separazione fra operai e organizzatori. I Gruppi non pretendono di agire in
nome degli operai, ma si considerano essi stessi membri della classe operaia, i
quali hanno avuto, per una ragione o l'altra, la possibilità di constatare che
la tendenza sociale attuale procede nel senso del crollo del capitalismo, e in
questa direzione cercano di coordinare le concrete attività degli operai. Essi
sono coscienti di non essere niente più che gruppi di propaganda, in grado di
suggerire linee necessarie di azione, ma incapaci di eseguirle nell’« interesse
della classe». Questo la classe deve farlo da sé. I Gruppi tentano di basare
interamente la loro azione attuale sui bisogni degli operai, benché essa sia
inserita in una prospettiva di lungo periodo. In tutte le occasioni, essi
tentano di favorire l'iniziativa e l'azione autonoma degli operai, partecipando
quanto più possibile alle azioni operaie di massa, senza un programma autonomo
rispetto a quello stesso degli operai, di cui si cerca semplicemente di favorire
al massimo la partecipazione diretta a tutte le decisioni. Essi dimostrano, con
le parole e coi fatti, che il movimento operaio deve pensare solo ai propri
interessi; che la società nella sua totalità non è una faccenda che li riguardi,
dal momento che non esisterà mai una società davvero complessiva finché non
saranno abolite le classi; che gli operai devono attaccare, e attaccano davvero
le altre classi e tutti gli altri interessi presenti nella società basata sullo
sfruttamento, solo quando essi tengono conto soltanto dei loro interessi
specifici più immediati; che gli operai non possono sbagliare Finché fanno ciò
che è loro utile economicamente e socialmente; che essi, infine, devono
cominciare a risolvere i loro problemi oggi, preparandosi in questo modo a
risolvere i problemi, ancora più urgenti, del domani.
domenica 23 settembre 2012
Attualità della rivolta: la Banlieue è il mondo!
Riproponiamo anche dopo qualche anno l'editoriale della rivista "n + 1" sulle rivolte nelle periferie parigine del 2005, per ciò che ci riguarda, prodromo di eventi attuali. StellaNera
La banlieue è il mondo
(editoriale di "n + 1", n. 19, 2006)
Si ha polarizzazione quando gli elementi di un "campo" o
"sistema" si dispongono secondo orientamenti particolari intorno a due poli
opposti. La nostra corrente usò questa metafora per definire la tipica crisi
rivoluzionaria, dove le tendenze fra conservazione e cambiamento si dispongono
agli estremi opposti. In quei momenti, il particolare stato delle molecole
sociali è simile a quello che troviamo poco prima di una scarica elettrica: fra
i due poli si verifica una ionizzazione dell'aria, una situazione di
instabilità catastrofica che ne capovolge le caratteristiche, per cui l'aria
stessa da isolante diventa conduttiva, con conseguente scarica elettrica
violenta.
La società moderna tende a esasperare i suoi estremi e ci offre
la verifica sperimentale della marxiana legge della miseria relativa crescente.
A un polo sta la classe borghese con le sue rappresentanze, all'altro chi è
schierato contro e non ha rappresentanze di sorta entro il sistema. In
mezzo brulica una palude sociale che conta soltanto come carne da consumo e da
scheda elettorale. L'area di mezzo è composta da atomi di un'atmosfera non
ancora ionizzata. Essi formano mezze classi e non-classi: bottegai,
professionisti, studenti, salariati proprietari e integrati, intellettuali
cerchiobottisti che cercano di spiegare tutto con una filosofia di compromesso
determinata materialmente dalla loro condizione, schiacciati dai vertici della
civiltà e presi a mazzate, non sempre metaforicamente, dalla base selvaggia.
I confini sono sfumati, ma da un po' di tempo a questa parte,
specie in Francia, la polarizzazione ha separato in modo del tutto evidente i
rappresentanti del Capitale dai dannati del capitalismo. E la palude delle
molecole instabili che sta in mezzo si agita rivendicando di esistere, cioè di
non essere precipitata fra i dannati. Perché queste molecole possono sognare di
mettersi al servizio del Capitale più di quanto già non facciano, ma da quella
parte l'accesso è contingentato, mentre le autostrade verso la dannazione sono
ampie e a pedaggio libero.
I capitalisti sono facili da definire e i dannati anche.
Riuscire a farlo con la palude di mezzo sembrerebbe più difficile. Ma è
un'impressione. Proprio perché è facile definire i poli estremi, è anche facile
definire, per esclusione, l'atmosfera intermedia che va ionizzandosi. La storia
ci ha semplificato le cose, per esempio togliendoci dai piedi la servitù
tradizionale, il lumpenproletariato, il "padrone delle ferriere" (diventato un
redditiero o azionista che delega le sue antiche prerogative a dei tecnici
stipendiati), e anche il proletariato ideale, quell'eroico facitore di
storia inventato da un'Internazionale comunista degenerata e che compare ancora
nelle fantasie di molti. Abbiamo dunque una società che si polarizza sempre più
intorno a due sole importanti classi sociali, e ci basta dire che tutto ciò che
non corrisponde alla vecchia buona definizione di classe sta nel mezzo, è una
poltiglia interclassista. Ed è spaventosamente sproporzionata rispetto al totale
della popolazione di un paese moderno. Per esclusione diremo che essa non
è fatta di: 1) proletari che vivono esclusivamente del proprio salario o sono
licenziati o non hanno mai trovato un lavoro; 2) rappresentanti fisici del
Capitale, proprietari o meno.
Una cinquantina di anni fa, in risposta ai soliti e noiosissimi
dibattiti intorno a chi è proletario e chi no, vera manìa del sociologo borghese
che vuole schedare poliziescamente una realtà dinamica e complessa, la nostra
corrente disse che il conto non si fa con l'anagrafe (nato in fabbrica; occhi
castani; professione proletario), bensì sulla base di un insieme coerente che
abbracci il salariato, il precario e chi proprio non ha lavoro-salario ma
potrebbe avere solo quello.
Una volta stabilito questo criterio, non ha più nessuna
importanza la ricerca sociologica intorno alla figura del banlieusard che
incendia automobili. È fin troppo evidente che per quella via ci si mette nei
pasticci, perché da una parte la racaille, la feccia, rappresenta una
ribellione nei confronti del capitalismo, ma dall'altra è anche quello
che dice il ministero dell'Interno Sarkozy, un'accozzaglia di teppisti che
bruciano e spaccano senza neppure uno straccio di rivendicazione e di
rappresentanza. Quel che interessa è il fenomeno generale determinato dal
suddetto conto di classe e non dalla psicologia di ogni singolo ragazzino
incendiario figlio di immigrati, emarginato, non integrato, frustrato, ecc. ecc.
Interessa l'esplosione di un fenomeno urbano che si verifica in uno dei paesi
più industrializzati del mondo, malato non certo di sottosviluppo ma di
industrializzazione.
L'anonimo partecipante a uno dei tanti forum internettiani sui
fatti francesi faceva notare che è ben strano definire "fenomeno urbano
postmoderno" la lotta selvaggia e spontanea dei banlieusards, mentre di
solito viene chiamata "sciopero selvaggio" ogni lotta operaia ben organizzata ma
non obbediente agli ordini sindacali. In realtà entrambi sono fenomeni
"postmoderni", nel senso che sia i banlieusards che gli operai in lotta
per sé devono rompere ogni legame con l'ordine esistente, prodotto del
capitalismo ultramaturo. Nel primo caso rifiutando la rassicurante politica
d'integrazione del governo francese con i suoi risvolti assistenziali e l'uso di
banlieusards traditori, nel secondo caso scontrandosi con la politica
nazional-corporativa del mostruoso blocco sociale
industria-governo-sindacati.
In ognuno dei due casi la rottura con l'ordine costituito deve
passare attraverso qualche forma di auto-organizzazione su basi materiali
preesistenti. Non si incendiano la capitale di un paese avanzato come la Francia
e altre centinaia di città senza che sia utilizzata in modo del tutto
naturale la rete di comunicazioni − dai cellulari a Internet − parte integrante
dello stesso sistema industriale che catapulta i "teppisti selvaggi" nelle
strade a scatenare la guerriglia per tre settimane. Non si organizzano scioperi
spontanei, sarebbe una contraddizione in termini: sulla base dell'organizzazione
di fabbrica gli scioperi cosiddetti spontanei nascono organizzati.
Quando scoppiò l'incendio delle banlieues avevamo da
poco pubblicato l'articolo Una vita senza senso, dove attribuivamo allo
sfacelo capitalistico non solo le rivolte urbane ma anche altri fenomeni, tra i
quali le grandiose manifestazioni rivendicative con radici reali ma obiettivi
fasulli. Era appena stata stroncata l'ondata incendiaria, che si sollevava,
sempre in Francia, un'ondata rivendicativa con milioni di persone in piazza,
ripetutamente. Si è manifestato contro una legge specifica (il CPE, contratto
primo impiego), ma si capisce benissimo che essa di per sé non era niente di
speciale, era solo un capro espiatorio su cui riversare il disagio di uno strato
sociale. Non una delle dodici (dodici!) delegazioni interclassiste "perbene"
ricevute da Sarkozy − improvvisatosi mediatore dopo aver fatto la parte del boia
− ha tentato in qualche modo di rappresentare il disagio reale. Ha trionfato
invece la sua manifestazione riformista esteriore, l'impotenza amministrativa di
fronte alle cifre, il tran tran della politica. Nessun decreto governativo può
modificare lo stato di cose esistente, dato che prende semplicemente atto
(malamente) di ciò che già succede, come da noi nel caso della Legge Biagi e,
prima ancora, dell'Articolo 18, che hanno mobilitato milioni e milioni di
persone "per nulla". D'altra parte la classe operaia francese sulle piazze non
c'era e gli stessi sindacati hanno ammesso che lo sciopero nelle fabbriche non è
riuscito. In confronto, la mancanza di rivendicazione, la ribellione pura, non
incanalata dei banlieusards, sembrerebbe molto più significativa.
Tuttavia i milioni di manifestanti, proletari o no, sono stati
mossi da un disagio profondo, da un'insicurezza totale, dalla percezione che non
se ne può più. Una situazione che porta milioni di persone in piazza non è mai
da sottovalutare, e l'intreccio con gli scioperi proletari, riusciti o no, la
rende ancora più contraddittoria e significativa. Le apparenti somiglianze con
un Sessantotto i cui esponenti noi abbiamo già criticato a suo tempo non devono
ingannare, così come non deve fuorviare l'apparente continuità con i moti delle
banlieues. L'insieme di queste manifestazioni è più importante dei moti
del '68 per la ragione materiale che ne è alla base, ma le lotte contro il CPE
non sono in continuità con gli scontri nelle banlieues, sono
complementari, li integrano, procedono in parallelo senza per ora
incontrarsi.
Le banlieues sono esplose perché a un proletariato
estremo, disoccupato, escluso anche per fattori etnici, bastava una piccola
scintilla per far emergere la propria rabbia. I milioni in lotta contro il CPE
hanno invece protestato non tanto per la loro condizione attuale quanto per
l'incertezza riservata dal futuro, incanalando la rabbia in una forma
istituzionale. Mentre i banlieusards hanno obbligato persino il ministro
di polizia a invocare di fronte al parlamento addirittura la costruzione di una
nuova società, gli studenti e i lavoratori hanno rivendicato la conservazione
dell'esistente contro una minaccia futura. Secondo The Economist, che
cita un non troppo stupefacente sondaggio, il 75% dei giovani francesi ambirebbe
a un posto sicuro nel pubblico impiego. Di fronte a un sondaggista con tali
domande, un banlieusard avrebbe semplicemente risposto ciò che
effettivamente fu gridato a Sarkozy durante una delle sue ispezioni sul campo:
"Va niquer ta mère!" (va a fottere tua madre). È inutile predicare che ci
vorrebbe ben altro, che i banlieusards non sono proletari, che se anche
lo fossero ci vorrebbe il partito, che se anche ci fosse il partito dovrebbe
essere quello specifico, fra le migliaia, di chi sta parlando o scrivendo in
quel momento. Troviamo che questo uso astratto di terminologia slegata dalla
realtà non sia affatto espressione del polo rivoluzionario ma della palude di
mezzo. Il fatto empirico di uno svolgersi di avvenimenti secondo gli schemi
classici delle catastrofi sociali, e non secondo il copione metafisico che c'è
nella testa degli intellettuali, dimostra chiarissimamente quanto sia potente
l'effetto polarizzatore previsto e già ripetutamente verificato dalla nostra
dottrina.
La sequenza è impressionante ma di una chiarezza cristallina: i
dannati senza-riserve delle metropoli insorgono; lo Stato, per mezzo del suo
ministro di polizia Sarkozy dichiara il coprifuoco e chiede leggi eccezionali.
Gli strati di mezzo si mobilitano preventivamente per non finire nel girone dei
dannati, quindi per gli stessi motivi sociali, e scatenano una loro lotta
specifica e separata, in veste di futuri disoccupati; lo Stato sconfessa
l'intransigente capo del governo in carica de Villepin e attiva una linea di
trattative condotta da quello stesso Sarkozy che ha attuato la repressione
spietata nei confronti dei dannati. I due campi, finché sono diversi, impongono
scelte diverse, chiedono e ricevono trattamenti diversi, quindi rimangono
inesorabilmente distanti e separati. Le banlieues non hanno partecipato
alle grandi manifestazioni riformiste prolo-studentesche. Alla Sorbona c'era
molta agitazione, ma alle facoltà di Paris-VIII in Seine-Saint-Denis tutto era
tranquillo: per un banlieusard l'università non è un punto di partenza ma
d'arrivo. Non c'è quindi da stupirsi se bande di dannati veri assaltano i cortei
e rubano tutto quel che capita, dai telefonini alle scarpe da ginnastica,
rafforzando la polarizzazione. Non c'è da stupirsi se i servizi d'ordine
sindacali e persino di ex "estremisti" sinistrorsi si armano di bastoni e
affiancano la polizia nella repressione.
Stampa e televisione si scatenano e la spaventosa fascia di
mezzo è costretta finalmente a ionizzarsi, cioè ad essere strattonata da una
parte e dall'altra fino a rompersi. Adesso qualcuno può (forse) capire perché un
teppista di periferia, oltre ad essere il prodotto materiale degenerato di un
capitalismo putrefatto, è nello stesso tempo un elemento altrettanto materiale,
fattore di rottura, di schieramento, di polarizzazione. Sta avvenendo, perché il
teppista ha costretto tutti a schierarsi, dilatando la banlieue al mondo
intero. Non tutti hanno sposato la tesi della palude e preso le distanze dagli
incendi; non tutti i sinistri hanno accampato repellenti giustificazioni per la
loro ricerca di una rivoluzione "angelicata" dell'inesistente proletariato puro.
Hanno accettato, come si accetta in meteorologia, che insieme ai fulmini, cioè
alle polarizzazioni eclatanti, "pulite", ci siano i fenomeni "sporchi" come
l'acqua delle alluvioni che muggisce violenta e tutto travolge.
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