domenica 7 ottobre 2012

P. Ferraris, "Le due libertà"

Pino FERRARIS
LE DUE LIBERTA'
("Una Città", n. 101, febb. 2002)
 
Per l’anarchico Malatesta libertà e autorità sono incompatibili, per il socialista Turati libertà e autorità, al fondo, si identificano. Per Merlino la libertà non può non fare i conti con la rappresentanza democratica, ma nello stesso tempo non c’è democrazia senza libertà e autonomia dei singoli e dei gruppi. L’attualità di un dibattito sulle due libertà nella crisi del fordismo. Intervento di Pino Ferraris.

Il 10 e 11 gennaio, in occasione dell’uscita del n. 100 di Una città, si è tenuto a Forlì un convegno dal titolo “Le due libertà”, a cui hanno partecipato Pietro Adamo, Luca Baccelli, Nico Berti, Aldo Bonomi, Guido Montani, Pierpaolo Poggio, Andrea Ranieri, Gianni Sofri, Fabrizio Tonello, Nadia Urbinati. Pubblichiamo l’intervento introduttivo di Pino Ferraris.

Voglio subito precisare che questo mio intervento non vuole e non può essere un contributo di ricostruzione storiografica. Il richiamo al passato è esplicitamente sottomesso all’urgenza del tentativo di rischiarare alcuni problemi del presente.
Il riferimento alla discussione tra Saverio Merlino e Errico Malatesta su anarchia e democrazia nel 1897, il richiamo alla polemica tra Merlino e Filippo Turati su collettivismo, lotta di classe e ministerialismo nel 1901 potrebbero rappresentare l’accenno a quello che sarebbe un ben più impegnativo e suggestivo lavoro: mettere in luce la poliedrica ricchezza del dibattito socialista nella fine dell’800 confrontando i tre modi concreti di vivere e di pensare la relazione tra socialismo, libertà e democrazia in questi tre esponenti di spicco: l’anarchico Errico Malatesta, il socialista liberale ante-litteram Saverio Merlino e il socialista democratico Filippo Turati.
Non è certo quello che sono in grado di fare. Mi limiterò a trarre dalla trama di antiche polemiche giornalistiche spunti personali che possono toccare problemi ancora vivi, come ad esempio il rapporto tra libertà e democrazia o la lotta anti-autoritaria di libertà.
Una considerazione preliminare: l’uso del diverso aggettivo (libertario, liberale, democratico) per connotare il sostantivo socialismo incide in profondità sui caratteri, sulla qualità del sostantivo stesso. Sono socialismi molto diversi che si confrontano.
Dura un anno la polemica tra Merlino e Malatesta su anarchia e democrazia: dal gennaio 1897 al gennaio 1898.
Per Merlino questo scontro con l’amico e il compagno di tante battaglie comuni segna il suo esplicito distacco dalla corrente anarchica nella quale aveva militato per venti anni.
L’ avvio del dibattito scaturisce dalla acuta percezione da parte di Merlino del fatto che nel clima reazionario e illiberale di quegli anni matura la forte esigenza della difesa delle libertà politiche, e che questa azione di difesa deve avvenire anche attraverso l’impegno elettorale e parlamentare.
Merlino invita gli anarchici ad abbandonare il loro rigido astensionismo che rischia di isolarli in una posizione di sterile testimonianza.
Egli prende contemporaneamente le distanze dai socialisti parlamentari e statalisti che si illudono, scrive, “di poter far breccia a colpi di schede nella cittadella borghese e conquistarla”.
Crede di poter proporre una posizione intermedia che colga il meglio dell’ipotesi anarchica e tenga conto degli aspetti positivi della proposta socialdemocratica.
La risposta che viene da Errico Malatesta è intransigente e rigorosa: la partecipazione al voto non è una questione tattica, ma comporta la rinunzia a “tutto intero il programma anarchico”.
Raccogliendo ed estremizzando le riserve e le critiche del liberalesimo alla democrazia, egli ricorda come la democrazia rappresentativa non sia affatto il luogo che raccoglie e conserva le libertà, ma il contesto nel quale si alimenta l’autoritarismo illiberale: il potere che scende dall’Alto in nome del basso, in nome e per conto della sovranità popolare, è un potere particolarmente invasivo ed esigente. Il socialismo di stato concede dall’alto proprio in quanto riesce a sostituirsi all’esperienza di libertà, alla spontaneità sociale del basso.
Non vi può essere mediazione nella differenza sostanziale che separa le due posizioni: o autorità o libertà, coazione o consenso, obbligatorietà o volontarietà.
Sono alternativi i due modi di lotta politica: quello di coloro che vogliono conquistare i pubblici poteri e quello di coloro che vogliono abolire il governo e non già occuparlo.
Saverio Merlino cerca di incalzare Errico Malatesta in quanto anarchico non individualista, in quanto anarchico socialista che deve mediare il radicalismo delle libertà e delle autonomie con i limiti necessari che provengono dalle forme di organizzazione della convivenza sociale.
Un pensiero libertario socialista non può, secondo Merlino, evitare di fare i conti realisticamente con la forma della rappresentanza, con il principio di maggioranza, con la divisione del lavoro, con quei germi di autorità che fermentano dentro la democrazia: non si può restare ad essi indifferenti, occorre controllarli, limitarli, neutralizzarli.
Tra la perfetta armonia anarchica delle volontà e il dispotismo autoritario vi sono forme intermedie nelle quali l’espansione delle libertà individuali può convivere con la necessaria gestione delegata degli interessi generali e indivisibili della società.
Il rischio oligarchico, che non è solo nei parlamenti ma anche all’interno delle associazioni, deve essere bilanciato accentuando al massimo la forma federativa e i contenuti libertari da far vivere dentro la democrazia. Non c’è pacifica convivenza e tantomeno scontata complementarietà tra libertà e democrazia; la cosiddetta liberal-democrazia non è uno stato solido, ma un equilibrio molto instabile.
La difesa giuridica e le garanzie dei diritti di libertà sono importanti ma da sole non reggono se la libertà non vive direttamente esercitata nelle esperienze delle persone e dei raggruppamenti.
Il “riformismo rivoluzionario” cui Merlino si richiamava consisteva proprio nell’affermazione del ruolo propulsivo della azione extra-istituzionale ai fini stessi del graduale riformismo sociale e dell’evoluzione istituzionale.
Nella successiva polemica con Filippo Turati l’argomentazione di Saverio Merlino si svolge con acuto buon senso e viva consapevolezza della realtà, ma nonostante ciò suscita uno scatto di incomprensibile violenza nel suo interlocutore.
Ciò che Turati sembra percepire come intollerabile minaccia è il richiamo di Merlino alla spontaneità sociale, alle iniziative autonome, all’esercizio diretto di libertà civili. Questi confusi richiami, secondo Turati, manifestano la pericolosa persistenza di uno “spirito anarcoide” che non deve essere importato nel partito, ma rispetto al quale c’è la necessità di “epurarci e disciplinarci”.
Per Turati la libertà è ben altra cosa dell’impulsività e della irrazionalità delle folle incolte ed arretrate, la libertà si identifica con il giusto disegno che risponde ai veri interessi delle masse; disegno che solo l’élite è in grado di riconoscere e di imporre. In questa logica la “vera” libertà non solo non è incompatibile ma coincide con l’autorità.
Il dibattito polemico di Merlino con Turati parte da un lungo e impegnativo articolo che il leader socialista pubblica su Critica Sociale il 16 luglio 1901. Proprio all’indomani dell’eccidio di Berra da parte della truppa che ha sparato contro i contadini ferraresi, subito dopo che il governo stesso ha difeso l’operato dei militari, Turati, senza indugi, scende in campo a difendere il sostegno parlamentare dei socialisti al governo Zanardelli che, per la prima volta, egli scrive, apre un periodo di consolidamento della libertà e del rispetto della legge.
L’intervento di Turati è direttamente politico ma con pretese di dottrina. Egli prende l’avvio da molto lontano, dai “cardini della dottrina socialista”: il collettivismo e la lotta di classe.
Solo al paragrafo sei giunge infine a parlare dei “fatti di Berra” (tre morti e 23 feriti) considerati però come un “episodio fugace per quanto tristissimo” davanti al quale non occorre innestare “facili volate retoriche” o cedere agli “impulsi della cieca passione”.
Egli sostiene che la continuazione del sostegno socialista al governo non è frutto di un cedimento ministerialista, ma ribadisce una scelta che ha come posta in gioco “la libertà, questa grande redentrice”.
Le polemiche, i dibattiti interni al partito socialista in questo avvio dell’età giolittiana sono molto accesi e Turati è in minoranza proprio in casa sua, a Milano.
Quale era la libertà che ad ogni costo voleva difendere Turati?
Carlo Rosselli tracciando un affettuoso, commosso e lucido profilo di Filippo Turati subito dopo la sua morte accenna all’incomprensione delle giovani generazioni nei confronti di quella transizione di inizio secolo verso il ministerialismo che Turati impone in nome della libertà. “C’era la libertà -commenta Rosselli- è vero, ma quale libertà? Essa non si presentava loro (ai giovani) come il coronamento di un gran moto di popolo, o come conquista lenta ma inarrestabile per pressione di masse coscienti; ma come elargizione dall’alto, come concessione graziosa, fatta più per interesse dinastico… che per necessità storica”. In realtà Turati vede la libertà soprattutto come libertà politica di organizzazione e di propaganda, come lo spazio vitale per costruire una élite colta capace di organizzare nel basso e di rappresentare verso l’alto le masse ancora arretrate sempre oscillanti tra l’inerzia e l’impulsività.
Il democratico Filippo Turati, organizzatore di rappresentanza popolare per influire sull’azione riformatrice dello stato, non può certo essere accusato di particolari sensibilità libertarie e forse neanche liberali.
Le critiche che Saverio Merlino rivolge a Turati cercano di andare alla radice, di toccare alcuni problemi di fondo come quello del collettivismo, cioè dell’ipotesi di statizzazione integrale dell’economia, che egli ritiene insieme utopica e pericolosa per le insidie di un possibile universo di autoritarismo burocratico ad essa collegato.
L’accusa principale che gli rivolge è quella di realizzare ed esasperare una frattura micidiale tra un rigido ed altisonante frasario ideologico marxista (collettivismo e lotta di classe) e uno scambio politico di bassissimo livello tra protezione ministeriale di interessi corporativi e produzione di consenso popolare incondizionato e subalterno alla classe politica di governo.
Merlino contesta questo tipo di ministerialismo che si vuole giustificare con la necessità di ottenere una “tregua della libertà”.
In nome della libertà esterna di fare propaganda -incalza- voi perdete la “libertà interna” cioè il sentimento dei propri diritti e la volontà di farli valere. I socialisti sono da rimproverare perché insieme ai voti hanno dato al governo anche la loro anima, cioè la loro autonomia, il distacco critico, la capacità propria di saper comunque ottenere riforme per forza di popolo e non solo per concessione di governo. Che razza di libertà è quella che può praticare, per grazia di governo, un popolo ammansito, subalterno e passivo?
Le repliche di Turati sono sprezzanti e denigratorie: Merlino sarebbe un anarchico di lungo corso infiltrato nella sezione socialista di Napoli per introdurre “il suo bagaglio di anarchismo raddolcito, riformista, piccolo-borghese e dichiaratamente anti-collettivista…”.
E’ inquietante ricordare i modi, i mezzi, i toni con cui i socialisti autoritari di partito, i Bissolati, i Turati, Antonio Labriola, isolano, diffamano, annullano la volontà di presenza politica attiva e dialogante di Saverio Merlino. Già in quegli anni nella pratica e nella cultura del partito socialista si poteva vedere all’opera una tendenza schiettamente illiberale.
Con gli anni della Prima guerra mondiale, e subito dopo con l’affermarsi del bolscevismo russo accanto alla tradizione della socialdemocrazia tedesca, la politica a sinistra mostra un volto solo: quello dell’autorità, della statualità.
Scompare l’idea stessa di una trasformazione della società che possa avvenire attraverso processi di politicizzazione, di produzione di coscienza dall’interno dell’esperienza sociale di lavoro e di vita e nel corso dell’azione diretta di grandi masse. Con la militarizzazione della politica diventa dogma la concezione dispregiativa della massa come irrimediabilmente incompetente, cieca ed amorfa, come materia prima umana, “truppa”, oggetto della manipolazione ideologica e della mobilitazione amministrate dagli “stati maggiori”.
All’interno delle organizzazioni così come nei sistemi di governo si estende il contagio della democrazia autoritaria.
E’ difficile, richiede un esercizio eccezionale di immaginazione da parte delle nuove generazioni, riuscire a percepire da quali lontananze e da quali profondità provenga l’insofferenza autoritaria verso le libertà, le autonomie e la spontaneità nella tradizione che fu maggioritaria e vincente dentro il socialismo.
Il richiamo a questi vecchi dibattiti da un lato ci ricorda le radici antiche delle impotenze che gravano ancora dentro il presente, dall’altro rimette nel circuito della cultura quelle che furono le altre ragioni del socialismo libertario, del socialismo liberale, aiutando a reinventare una tradizione pluralista e a rinnovare una memoria che sia più utile a costruire futuro.
Mi sembra che meriti una riflessione l’atteggiamento apparentemente contraddittorio di Francesco Saverio Merlino.
Nel 1897 Merlino in nome della “difesa delle libertà politiche” richiama il radicalismo libertario di Malatesta al realismo della battaglia democratica.
Nel 1901 quello stesso Merlino contesta a Turati il diritto di invocare la difesa della libertà rimanendo all’interno dell’autoreferenzialità della mera sfera politica.
Non è incomprensibile e incoerente il comportamento di Saverio Merlino.
Quante volte noi stessi siamo stati portati al doppio movimento di difesa e di critica della democrazia?
Questi atteggiamenti scaturiscono dall’ambivalenza della stessa democrazia, che sempre si ripropone come il terreno di apertura di spazi possibili di libertà, ma anche come il luogo nel quale può avvenire l’esproprio autoritario delle nostre autonomie. L’uomo democratico si mostra oggi atomizzato, apatico e dipendente, mentre noi sappiamo che è stato e può essere attivo, cooperante e libero.
Il nocciolo vitale e progressivo della democrazia sta in gran parte fuori dell’ambito circoscritto della democrazia stessa, se per democrazia intendiamo riferirci allo spazio che definisce il chi e il come del governo.
Si commette un errore grave, e quasi sempre lo si commette a sinistra, quando si pretende di affermare che la libertà c’è in quanto è realizzata nella democrazia, nelle regole della rappresentanza e del gioco politico.
Non è la circolazione delle élites al potere che caratterizza e qualifica una società come società libera, ma è piuttosto la presenza in essa di singoli cittadini liberi e di associazioni indipendenti. La visione e la passione anche semplicemente liberali di cogliere e stimolare, arricchire e valorizzare tutto ciò che vive come autodeterminazione e capacità del far da sé al di là della circonferenza della statualità rappresentano l’anima mancante della tradizione del socialismo maggioritario e del presente impegno a sinistra.
Una ulteriore breve osservazione mi viene suggerita dal rigore polemico di Errico Malatesta che, nella discussione con Merlino, non cede di un millimetro sulla proposizione della libertà come esercizio costante di pensiero e di azione antiautoritari. Egli non perde mai il nesso essenziale di stringente e radicale opposizione tra libertà e autorità: dove c’è autorità cade la libertà, affermare la libertà significa infrangere l’autorità.
La storia delle lotte di libertà va di pari passo con l’incessante riprodursi dei meccanismi che minacciano libertà acquisite e che generano forme nuove di illibertà.
In noi oggi sembra prevalere una illusione di pacifico consumo di diritti di libertà; pensiamo sovente di poterci concedere il lusso della libera circolazione all’interno di spazi garantiti rispetto ad una autorità per così dire allontanata e addomesticata.
La libertà come una continua conquista che si realizza sulla frontiera, nella frizione e nell’urto contro le muraglie dei vincoli interni ed esterni di autorità; la libertà che è impegno di critica costante, coraggio della disubbidienza e della rivolta, appare oggi cosa sempre più difficile da pensare e ancor più da realizzare in uno stile di vita della personalità libera.
Che dire del vecchio John Stuart Mill che scorgeva nel pensiero eretico e nel comportamento eccentrico il lievito indispensabile di una società schiettamente liberale?
Scriveva Albert Camus: “Mi rivolto dunque siamo”. Dal singolare al plurale. Partendo da ognuno si può arrivare a tutti.
Nella tradizione del socialismo anarchico la radicalizzazione antiautoritaria della affermazione di libertà individuale richiama sia l’agire cooperativo sia il fine egualitario che spezza divisioni sociali e barriere gerarchiche.
Le autonomie personali e sociali però vivono e si espandono se autonomia, nel senso letterale del termine, significa dare legge a se stessi e cioè porre dentro di sé quel limite a se stessi che apre al riconoscimento dell’altro. Le autonomie chiuse e confliggenti evocano immediatamente l’opposto, l’eteronomia, chiamano l’intervento del Terzo, ripropongono il ritorno del Centro, dello Stato mediatore.
Ritornando alle discussioni, alle ricerche, alle passioni di uomini e donne di tempi lontani e molto diversi dal nostro, non possiamo certo pensare di trovare soluzioni, ricette ai problemi del presente, possiamo però ricevere stimoli a porre questioni a lungo rimosse, a sollevare interrogativi elusi come appunto quello di una politica della libertà a sinistra, come quello del confronto e scontro fra due concezioni, due pratiche delle libertà nel presente.
Dalle tensioni contraddittorie che si esprimono nell’attualità vedo salire una necessaria nuova controversia radicale sulla libertà.
Mi sembra addirittura straripante la vocazione all’illegalismo di tutti i poteri forti che percepiscono e soffrono il principio di legalità come un indebito intralcio all’illimitata sovranità popolare e al dispiegarsi del libero mercato.
Qui si manifesta quella libertà di destra che Luigi Ferrajoli vede insorgere sia come assolutismo di maggioranza (legibus soluta) nella quale il richiamo ad investiture plebiscitarie tende ad incrinare i vincoli che garantiscono le libertà di tutti; sia come assolutismo di mercato (legibus solutus) che nella sua sregolatezza tende ad imporre il diritto del più forte e il privilegio monopolistico, spezzando e spazzando via l’ingombro dei diritti sociali e del diritto del lavoro. Il fatto che l’affermazione di queste libertà potestative e patrimoniali dei pochi possa tradursi come immaginario di liberazione per molti testimonia appunto la mancanza di una sfida politica e culturale alternativa giocata su questo terreno della libertà. Eppure i fermenti per costruire una alternativa di libertà esistono proprio in quella società dei lavori sconvolti, irriconoscibili e sconosciuti che sembra ormai scomparsa dall’orizzonte della sinistra. La lunga età del taylorismo fordista ha accentuato sino all’esasperazione il momento dell’eterodirezione nel lavoro, richiedendo in modo parossistico disciplina passiva ed esecuzione cieca.
Rispetto a questa radicale alienazione del lavoro costretto, il fordismo ha attivato una logica di risarcimento fuori dal lavoro con la crescita del reddito-consumo e con le tutele dello stato assistenziale. Dentro la sempre ricorrente tensione tra uguaglianza e libertà, nel corso del ‘900, l’eguaglianza, nella particolare versione dell’omologazione nel consumo di massa, si è affermata a scapito delle esigenze di autonomia e di libertà.
L’attuale crisi del fordismo sembra operare una diversa configurazione del binomio vincolo ed autonomia dentro il lavoro: si accentua l’elemento di autonomia pur dentro la dipendenza.
Penso alla fabbrica integrata ad automazione flessibile dove si richiede responsabilità ed iniziativa al lavoro avanzando la paradossale pretesa di una “autonomia in linea gerarchica”.
Penso anche a ciò che avviene nel nuovo articolarsi del mercato del lavoro flessibile, il lavoro autonomo, il lavoro parasubordinato.
In tutte queste situazioni di lavoro post-fordista si richiede di mobilitare una soggettività che contemporaneamente viene frenata e frustrata, si richiedono assunzioni di responsabilità senza riconoscere diritti, si sollecita l’autonomia sotto il vincolo dell’autorità.
E’ possibile stimolare l’iniziativa, il pensiero degli uomini e delle donne al lavoro, tenendo sotto controllo l’imprevedibile e fuorviante tentazione della libertà?
Forse lo scontro dentro al lavoro si sposta sempre più sul terreno delle libertà, delle autonomie.
La problematica delle due libertà non sta quindi soltanto all’interno delle elaborazioni culturali; a me sembra ormai di vederla in atto e operante dentro l’esperienza e nella realtà.
L’una si manifesta con prepotenza ed irruenza sospinta dai poteri alti, l’altra si agita inespressa nel sottosuolo della società.
Intanto a sinistra la parola libertà continua ad indicare una assenza, mentre la parola lavoro richiama soltanto antiche radici divelte.

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