(…)
"Il giudizio pessimista sulla massa implica in realtà un giudizio pessimista
sull'uomo poiché la massa non è altra cosa di una somma di concrete
individualità. Dal momento che si dichiara la massa incapace di afferrare, sia
pure mediante intuizioni grossolane primitive, il valore di una lotta per la
libertà, per ciò stesso si dichiara l'uomo chiuso ad ogni istinto che non sia di
natura strettamente utilitaria. Se taglia alle radici, ad un tempo, qualsiasi
bisogno di redenzione sociale, si soffoca sinanco la fede negli istinti
democratici, questa fede fondata sulla tesi di fondamentale identità fra gli
uomini e su di un ragionevole ottimismo sulla natura umana".
"(...)
ma, d'altra parte, non ho mai lucidate le scarpe al proletariato «evoluto e
cosciente», neppure in comizio. E non capisco il linguaggio aulico dei bonzi
bolscevichi". "In un articolo (cito un esempio tra mille) di Azione
antifascista (giugno ‘33), leggo che Gramsci è un'anima proletaria. Dove ho
udito quest’espressione? Frugo nella memoria. Ah, ecco! Fu a Le Pecq, mentre in
costume e in fatica da manovale muratore mi aveva sorpreso uno dei
<<responsabili>> comunisti. <<Ora la puoi conoscere, Berneri,
l’anima proletaria!>> Così mi aveva apostrofato. Tra una stacciatura di
sabbia e due secchi di «grossa» riflettei sull’ «anima proletaria». E come
sempre, a chiarire il problema sorgevano, dalla memoria del cuore, i ricordi. I
primi contatti con il proletario: era lì che cercavo la materia della
definizione. L’ «anima proletaria» non la trovai. Ritrovai i miei primi
compagni: i giovani socialisti di Reggio Emilia e dintorni. Vi erano dei cuori
generosi, delle menti aperte, delle volontà tenaci. Poi conobbi degli anarchici.
Torquato Gobbi mi fu maestro, nelle sere brumose, lungo la via Emilia, sotto i
portici che risuonavano dei miei tentativi di resistere alla sua pacata
dialettica. Lui era legatore di libri, io studentello di liceo, ancora «figlio
di papà» dunque, e ignaro di quella grande e vera Università che è la vita. E
dopo allora, quanti operai, nella mia vita quotidiana! Ma se nell'uno trovavo
l'esca che faceva scintilla nel mio pensiero, se nell'altro scoprivo affinità
elettive, se all'altro ancora mi aprivo con fraterna intimità, quanti altri
aridi ne incontravo, quanti mi urtavano con la loro boriosa vuotaggine, quanti
mi nauseavano con il loro cinismo! Il proletariato era «la gente»: quella media
borghesia in cui ero vissuto, la massa studentesca nella quale vivevo; la folla,
insomma. E gli amici e i compagni operai più intelligenti e più spontanei mai mi
parlavano di «anima proletaria». Sapevo proprio da loro, quando lente a
progredire fossero la propaganda e l'organizzazione socialiste. Poi entrato
nella propaganda e nell’organizzazione, vidi il proletariato, che mi parve, nel
suo complesso, quello che ancor oggi mi pare, un’enorme forza che si ignora; che
cura, e non intelligentemente, il proprio utile; che si batte difficilmente per
la motivi ideali o per scopi non immediati, che è pesante di infiniti
pregiudizi, di grossolane ignoranze, d’infantili illusioni. La funzione delle
élites mi parve chiara: dare l'esempio dell'audacia, del sacrificio, della
tenacia; richiamare la massa su se stessa, sull’oppressione politica, sullo
sfruttamento economico, ma anche sull'inferiorità morale ed intellettuale delle
maggioranze. Sì che presentare la borghesia ed il proletariato con il demagogico
semplicismo delle caricature scalarinesche dell’Avanti! e degli «oratori
da comizi» mi parve di cattivo gusto e dannoso".
"Vi
fu, e purtroppo vi è ancora, una retorica socialista che è terribilmente
ineducativa. I comunisti contribuiscono, più di qualsiasi altro partito
d'avanguardia, a perpetuarla. Non contenti dell’ «anima proletaria», hanno
tirato fuori la «cultura proletaria». Quando morì Lunaciarsky fu detto, da certi
giornali comunisti, che «egli incarnava la cultura proletaria». Come uno
scrittore di origine borghese, erudito (e l'erudizione è il capitalismo della
cultura), alquanto prezioso come il Lunaciarsky potesse rappresentare la
«cultura proletaria» è un mistero analogo a quello della «ginecologia marxista»,
termine che ha scandalizzato perfino Stalin. Le Réveil di Ginevra,
insorgendo contro l'abuso dell'espressione «cultura proletaria», osservava: «Il
proletario è, per definizione, e molto spesso in realtà, un ignorante, la cui
cultura è necessariamente limitatissima. In tutti i campi, il passato ci ha
fatto eredi di beni inestimabili che non potrebbero venire attribuiti a questa o
a quella classe. Il proletariato, lui, rivendica anzitutto una più larga
partecipazione alla cultura, come ad una delle ricchezze delle quali non vuole
essere più privo. Dei sapienti, degli scrittori, e degli artisti borghesi ci
hanno dato delle opere di un'importanza emancipatrice; invece, degli
intellettuali sedicenti proletari ci cucinano dei piatti spesse volte
indigesti»".
"La
«cultura proletaria» esiste, ma essa è ristretta alle conoscenze professionali e
all'infarinatura enciclopedica raffazzonata in disordinate letture. Carattere
tipico della cultura proletaria è di essere in arretrato con il progresso della
filosofia, delle scienze e delle arti. Voi troverete dei seguaci fanatici della
monismo di Haeckel, del materialismo di Buchner, e perfino dello spiritismo
classico, tra gli «autodidatti», ma non ne troverete tra persone realmente
colte. Una qualsiasi teoria comincia a diventare popolare e a trovare eco nella
«cultura proletaria» che è golosa di lussi. Come il romanzo popolare è pieno di
principi, di marchesi e di ricevimenti salotteschi, così un libro è tanto più
ricercato e gustato dagli «autodidatti» quanto più è indigesto ed
astruso.
Molti
di costoro non hanno mai letto La conquista del pane, o il dialogo Fra
contadini, ma hanno letto Il mondo come volontà e rappresentazione e
La critica della ragion pura. Una persona colta che si occupi, ad
esempio, e scienze naturali e che non abbia conoscenze di matematica superiore,
si guarderà bene dal giudicare Einstein. Un autodidatta, in generale, ha in
materia di giudizi un fegataccio grosso così. Dirà di Tizio che è un
filosofucolo, di Caio che è un «grande scienziato», di Sempronio che non ha
capito il « rovesciamento della prassi », né la «noumenicità», né l’ «ipostasi».
Ché l’autodidatta, sempre in generale, ama parlare difficile".
"Fondare
una rivista, al mezzo-colto, non fa paura. Non parliamo poi di un settimanale.
Scriverà della schiavitù in Egitto, delle macchie solari, dell’ «ateismo» di
Giordano Bruno, delle « prove » dell'inesistenza di Dio, della dialettica
hegeliana; ma della sua officina, della sua vita di operaio, delle sue
esperienze professionali non dirà una parola".
"«L'autodidatta»
cessa di essere tipicamente tale quando giunge a farsi una vera cultura. Quando,
cioè, a ingegno e volontà. Ma, allora, la sua cultura non è più operaia. Un
operaio colto, come Rudolf Rocker, è come un nero portato in Europa bambino e
cresciuto in una famiglia colta o in collegio. L'origine, come il colore della
pelle, non conta, in questi casi. In Rocker, nessuno immaginerebbe l'ex-sellaio,
mentre quando Grave esce dalla volgarizzazione kropotkiniana fa pensare, con
rimpianto, ché è stato calzolaio".
"La
cosiddetta «cultura operaia» è, insomma, una simbiosi parassitaria della cultura
vera, che è ancora borghese e medio-borghese. E più facile che dal proletario
esca un Titta Ruffo, o un Mussolini, che uno scienziato od un filosofo. Questo
non perché l'ingegno sia monopolio di una classe, ma perché al 99 per cento dei
proletari, lasciata la scuola primaria, è negata la cultura sistematica dalla
vita di lavoro e di abbrutimento. L'istruzione e l'educazione per tutti è uno
dei più giusti canoni del socialismo, e la società comunista darà élite
naturali; ma, per ora, è grottesco parlare di «cultura proletaria» del filologo
Gramsci o di «anima proletaria» del borghese Terracini. La dottrina socialista è
una creazione di intellettuali borghesi. Essa, come osserva De Man in Au de
là du marxisme, «è meno una dottrina del proletariato che una dottrina per
il proletariato». I principali teorici dell'anarchismo, da Godwin a Bakunin, da
Kropotkin a Cafiero, da Mella a Faure, da Covelli a Malatesta, da Fabbri a
Galleani, da Gori a Voltairine de Cleyre, uscirono da un ambiente aristocratico
o borghese, per andare al popolo. Proudhon, di origine proletaria, è di tutti
gli scrittori anarchici il più influenzato dall'ideologia e dai sentimenti della
piccola borghesia. Grave, calzolaio, è caduto nello sciovinismo democratico il
più borghese. Ed è innegabile che gli organizzatori sindacali di origine
operaia, da Rossoni a Meledandri, hanno dato, proporzionalmente, il maggior
numero d’inserimenti".
"Il
populismo russo e il sorelianismo sono due forme di romanticismo operaista delle
quali è continuatrice, formalmente, la demagogia bolscevica. Gorki che è uno
degli scrittori che ha vissuto più lungo e più profondamente in mezzo al
proletariato, scrive:
«Quando
costoro (i propagandisti) parlavano del popolo, lo sentii subito che essi lo
giudicavano differentemente da me. Ciò mi sorprese e mi rese diffidente verso me
stesso. Per essi il popolo era l'incarnazione della saggezza, della bellezza
spirituale, della bontà e del cuore, un essere unico e quasi divino, depositario
di tutto quello che è bello, grande e giusto. Non era affatto il popolo che io
conoscevo ».
Arturo
Labriola, al quale tolgo la citazione sopra riportata (Al di là del
capitalismo e del socialismo, Parigi 1931), la fa seguire da questi
ricordi:
«Potrei
aggiungere la mia esperienza personale, essendo io nato in una classe di
artigiani-artisti, che vivevano in contatto immediato con le classi del lavoro
materiale, ed erano essi stessi dei proletari. I lavoratori che io ho conosciuto
fin dai primi anni della mia vita, erano degli uomini in tutto e per tutto degni
di pietà, ingenui e istintivi, creduli, inclini alla superstizione, volti alla
vita materiale, affettuosi e creduli nello stesso tempo con i figliuoli,
incapaci di ricavare dalla propria vita di lavoratori e un solo elemento di
pensiero particolare alla loro classe. Quelli di essi che, spogliandosi dalla
superstizione e dalle prevenzioni del loro ceto, giungevano al socialismo, non
lo vedevano che sotto il suo aspetto materiale di un movimento destinato a
migliorare la loro sorte. E naturalmente questo miglioramento attendevano dei
capi, i quali passavano indifferentemente dallo stato di idoli allo stato di
traditori secondo i momenti e le occasioni senza merito o demerito loro. È
indiscutibile che il socialismo li migliorasse sotto tutti gli aspetti; ed oso
dire che la mia prima spinta a favorire questo movimento, mi venne dalla grande
pietà che la miseria dei miseri m’ispirava, e dalla esperienza del beneficio che
il movimento recava ad essi».
Malatesta
stesso non vedeva il proletariato attraverso gli occhiali rosa di Kropotkin
(...) Chiunque ripensi alla storia del movimento operaio vedrà prevalervi
un’immaturità morale spiegabilissima, ma tale da imporre la più evidente
smentita ai ditirambici esalta attori delle masse".
"Il
giochetto di chiamare «proletariato» i nuclei di avanguardia e di élites operaie
è un giochetto da mettere in soffitta. Le allegoriche demagogie lusingano la
folla, ma le nascondono delle verità essenziali per l'emancipazione reale. Una
«civiltà operaia», una «società proletaria», una «dittatura del proletariato»:
ecco delle formule che dovrebbero sparire. Non esiste una «coscienza operaia»
come tipico carattere psichico di un'intera classe; non vi è una radicale
opposizione tra «coscienza operaia» e «coscienza borghese». I greci non hanno
combattuto per la gloria, come pretendeva Renan. E il proletariato non si batte
per il senso del sublime, come si affannava a sostenere il Sorel nelle
sue Réflexions sur la violence.
L'operaio
ideale del marxismo e del socialismo è un personaggio mitico. Appartiene alla
metafisica del romanticismo socialista e non alla storia. Negli Stati Uniti e
nell'Australia sono le Unions operaie che richiedono la politica restrittiva
dell'immigrazione. All'emancipazione dei neri degli Stati Uniti, il proletariato
americano (vedi Mary R. Béard, A short history of the american labour
movement, New York, 1928) non ha dato che un misero contributo e ancora oggi
i lavoratori di colore sono esclusi da quasi tutte le organizzazioni sindacali
americane. I movimenti di boicottaggio (con contro le dittature fasciste, gli
orrori coloniali, ecc.) sono scarsi e non riescono. E rarissimi sono di scioperi
di solidarietà classista o a scopi strettamente politici.
Questo
carattere utilitarista, questa grettezza, questa inerzia generale caratterizzano
particolarmente il proletariato industriale".
"Ogni
qual volta mi accade di leggere, o di udire, esaltare il proletariato
industriale come la élite rivoluzionaria e comunista, reagiscono in me dei
ricordi di vita, cioè delle personali esperienze e delle osservazioni
psicologiche. Sono condotto a sospettare negli assertori di quello che a me pare
un mito, o un’infatuazione di «provinciali» inurbati in qualche grande centro
industriale o, in altri casi, un’infatuazione d'ordine professionale. Quando
leggevo l'Ordine Nuovo, specialmente nel suo primo periodo, quando era
periodico, la suggestione delle sue continue esaltazioni della grande industria
come formatrice di omogeneità classista, di maturità comunista degli operai di
officina, ecc., era in me respinta da considerazioni d'ordine psicologico.
Immaginavo,
ad esempio, Gramsci piovuto a Torino dalla nativa Sardegna, e preso tutto dagli
ingranaggi della metropoli industriale. Le grandi manifestazioni, la
concentrazione di operai specializzati, la vastità febbrile del ritmo della vita
sindacale della città industriale - mi dicevo - l'hanno affascinato. La
letteratura bolscevica russa mi pareva pantografare lo stesso processo psichico.
In un paese come la Russia, dove le masse rurali erano enormemente arretrate,
Mosca, Pietrogrado e gli altri centri industriali dovevano parere delle oasi
della rivoluzione comunista. I bolscevichi dovevano, quindi, spinti
dall'industrialismo marxista, essere condotti a infatuarsi della fabbrica, come
i rivoluzionari russi dell'epoca di Bakunin erano condotti ad infatuarsi della
cultura occidentale.
In
Italia, la mistica industrialista di quelli dell'Ordine Nuovo mi
appariva, quindi, come un fenomeno di reazione analogo a quello del futurismo.
Un
altro aspetto che mi pareva esplicativo era quello della naturale tendenza che
hanno i tecnici industriali, tendenza che ha corrispettivi in tutti i campi
della specializzazione, a vedere nel fatto «industria» l'alfa e l'omega del
progresso umano. E mi pareva significativo che gli ingegneri fossero numerosi
fra gli elementi direttivi del Partito Comunista.
A
questo angolo visuale sono ancora posto, e trovo una nuova conferma
nell'atteggiamento di alcuni tra i repubblicani che sono influenzati
dall'ideologia dei comunisti.
Tipico
è il caso di A. Chiodini, che nel numero del febbraio 1933 dei Problemi della
rivoluzione italiana, criticando l'indirizzo rurale e meridionalista del
programma di «Giustizia e libertà», proclama:
«Il
proletariato industriale è l'unica forza oggettivamente rivoluzionaria della
società. Perché solo il proletariato è nella condizione e nella possibilità di
liberarsi da ogni mentalità chiusa di categoria e di assurgere a dignità di
classe, cioè di forza collettiva che ha coscienza di un compito storico da
realizzare.
La
rivoluzione italiana, come tutte le rivoluzioni, non può essere l'opera che di
forze omogenee e capaci di muoversi per ideali a largo respiro.
Ora,
l'unica forza omogenea che possa battersi per un ideale di libertà concreta e
che per questa battaglia possa essere disposta ad un’azione lungimirante, non a
scadenza fissa, è la forza operaia. È questa che può porre, oggi, dopo tante
prove e tante tragedie, la propria candidatura come classe dirigente
rivoluzionaria»”.
"Che
il proletariato industriale sia una delle principali forze rivoluzionarie in
senso comunista è troppo evidente perché ci sia da discutere a questo proposito.
Ma è, d'altra parte, evidente che l'omogeneità di quel proletariato è più nelle
cose che negli spiriti e più - vale a dire - nell'agglomerato di individui che
sono in grandissima maggioranza dei salariati senza grandi differenze attuali o
possibili ed a contatto con una proprietà di sua natura indivisibile (quindi
necessariamente atta a divenire il capitale di un lavoro necessariamente
associato) che nella coscienza di classe, di forza collettiva destinata ad
attuare un grandissimo compito storico.
Il
particolarismo degli operai delle industrie è troppo evidente perché ci si lasci
andare alle generiche e generalizzatrici esaltazioni che di essi fanno taluni
dei marxisti e dei marxisteggianti.
L'egoismo
corporativo negli Stati Uniti ha condotto ad una vera e propria politica
xenofoba, e le corporazioni tipicamente industriali si sono mostrate sempre tra
le più accanite nel richiedere al governo l'interdizione all'immigrazione
operaia. Lo stesso nella Nuova Zelanda. Ma limitiamoci all'Italia. Gli operai
delle industrie hanno sempre favorito il potenziamento industriale. Il libro di
G. Salvemini, Tendenze vecchie e necessità nuove del movimento operaio
italiano (Bologna, 1922), è ricco di esempi, a questo proposito. Né scelgo
alcuni, che mi sembrano i più tipici.
Nel
1914, gli operai dell'industria zuccheriera che erano 4.500, cioè una
piccolissima categoria, venivano protetti dai socialisti riformisti, che
chiedevano al governo la protezione doganale dello zucchero, senza curarsi
dell'industria danneggiata dall'alto prezzo della materia prima. Tale richiesta
veniva a danneggiare tutti i consumatori italiani, costretti a pagare a prezzo
più alto non solo lo zucchero, ma anche le confetture e le marmellate. Non solo;
essa limitava il consumo interno delle seconde, ne impediva la esportazione,
quindi diminuiva il lavoro degli operai di queste industrie. Gli operai degli
zuccherifici avrebbero, quindi, dovuto: o richiedere la protezione per tutte e
due le industrie o richiedere il libero scambio per lo zucchero, potendo essi
essere assorbiti dallo sviluppo dell'industria delle confetture e della
marmellata. Questo nell'interesse generale. Ma come pretendere che gli operai
degli zuccherifici che guadagnavano «salari elevati, ignoti ad altre categorie
di lavoratori» (Avanti!, 10 marzo 1910) rinunziassero alla loro posizione
privilegiata?
Un
altro esempio. Prima della guerra, funzionavano in Italia 37 miniere di lignite,
che produssero, nel 1913, 700 mila tonnellate di combustibile. Durante la
guerra, salito a prezzi altissimi il carbone estero, fu conveniente sfruttare
giacimenti lignitiferi anche poverissimi; e le miniere salirono a 137 ma la
produzione non crebbe che di quattrocentomila tonnellate, parte delle quali date
da una più intensa produzione delle vecchie miniere. Finita la guerra, discesi i
prezzi del carbone estero, le richieste di lignite scemarono, sin che le 37
miniere ridivennero sufficienti.
I
minatori aggiunti, quasi tutti i contadini dei paesi circostanti, si videro
minacciati di licenziamento e di diminuzione di salario. Grandi agitazioni, il
cui motto d'ordine era: Niente licenziamenti! E un deputato socialista,
presidente di un consorzio cooperativo minerario chiese al governo di mantenere
la produzione lignitifera alle cifre del periodo di guerra, anzi che la facesse
salire a 4 milioni di tonnellate annue; che l'amministrazione delle ferrovie
trasformasse un certo numero di locomotive per adattarle all'impiego della
lignite; che i fuochisti delle ferrovie fossero meglio pagati per compensarli
dell'aumento di fatica dato loro dall'uso della lignite; che l'uso della lignite
fosse imposto per legge a tutti i servizi dipendenti da pubbliche
amministrazioni in tutti i casi in cui la lignite potesse senza danno sostituire
il carbone; che il governo finanziasse le società che si proponessero l'impianto
di centrali elettriche a base di lignite; che esentasse dall’avocazione dei
sopraprofitti di guerra gli impianti di questo genere.
Il
deputato socialista chiedeva cioè che si consumassero milioni per far lavorare
qualche centinaio di minatori, moltissimi dei quali potevano tornare ai campi. I
quali minatori avrebbero lavorato col pesante piccone a consumare milioni tolti
a Pantalone!
Bisogna
rilevare che le agitazioni dei minatori del bacino carbonifero del Valdarno
erano capitanate da organizzatori dell'USI. Il caso sopra citato è quindi
doppiamente interessante, e richiede riflessione, perché ci richiama ad un lato
trascurato dagli anarchici operanti nelle unioni sindacali (il protezionismo) e
perché ci fa intravvedere quali problemi del genere si possano affacciare per
noi in un periodo rivoluzionario (tendenza di particolari categorie di operai a
far sopravvivere industrie non redditizie dal lato dell'economia nazionale)".
"Quale è stato l'atteggiamento degli anarchici incorporati nella Confederazione
Generale del Lavoro e nell'Unione Sindacale Italiana di fronte al
collaborazionismo socialista-padronale? Quando i dirigenti della FIOM
anteponevano l’interesse di trentamila operai, impiegati nella siderurgica,
viventi all'ombra del protezionismo doganale e del sovvenzionamento statale,
all'interesse di 270 mila operai occupati in industrie del ferro di seconda e di
terza lavorazione (metallurgiche e meccaniche), le quali avrebbero tutte da
guadagnare dall’avere a propria disposizione la materia prima a buon mercato,
quale è stato l'atteggiamento degli anarchici organizzati nella FIOM? Mi pare
che non ci sia stata da parte degli anarchici facenti parte delle organizzazioni
operaie una chiara idea della loro funzione di educatori. Opera di educazione
classista sarebbe stata quella di ricordare che i milioni dati alla protezione
delle industrie parassitarie venivano estorti nella massima parte alle altre
moltitudini lavoratrici d'Italia. Gli anarchici si sono lasciati fuorviare dai
socialisti, che, per ragioni demagogiche, rinunziarono a quella giusta e bella
intransigenza dei tempi in cui l’elettoralismo, il mandarinismo e il
collaborazionismo con la borghesia non erano ancora trionfanti. Agli industriali
liguri, che licenziavano tremila operai e minacciavano di licenziarne entro un
mese ventimila, se il governo non avesse rinunziato a diminuire i premi alla
marina mercantile, l'Avanti allora diretto dal riformista Leonida
Bissolati, rispondeva:
«Gli
operai sanno che i milioni dati alla protezione dell'industria navale sono
estorti nella massima parte alle altre moltitudini lavoratrici d'Italia; e
perciò, si rifiutano di formulare il desiderio che continui uno stato di cose,
in cui il pane degli operai di una regione sia pagato con la fame dei lavoratori
del resto d'Italia » (Avanti, 24 gennaio 1901).
A
quali degenerazioni sia giunta la collaborazione operaia-padronale nei centri
industriali lo dimostra il fatto che elementi cosiddetti rivoluzionari
inscenarono agitazioni per ottenere dal governo lavoro per l'industria di
guerra. Così, ne scriveva il Salvemini, sull'Unità dell’11 luglio 1913:
«La
Camera del Lavoro di Spezia, amministrata da sindacalisti, repubblicani e
socialisti rivoluzionari, ha promosso uno sciopero generale.
Per
protestare contro la uccisione di qualche operaio? L'- No.
Per
protestare contro una iniqua sentenza di classe, pronunciata dall'autorità
giudiziaria? - No.
Per
solidarietà con qualche gruppo di operai-scioperanti? - No.
Per
resistere a qualche illegalità delle autorità politiche o amministrative? - No.
Perché
dunque? - Per protestare contro il governo che minaccia di togliere all'arsenale
di Spezia l'allestimento della corazzata Andrea Doria.
Va
da sé che alla prima occasione i sovversivi di Spezia insceneranno anche a casa
loro qualche «solenne comizio» contro le spese «improduttive».
È
da notare che a capo di questo movimento di protesta... rivoluzionaria, si
trovava una cooperativa, quella degli operai metallurgici (Giornale
d'Italia, 24 aprile). E va notato pure che l'agitazione di Spezia si è
manifestata nello stesso tempo in cui il consiglio di amministrazione della Casa
Ansaldo lamentava nella relazione annuale di non avere sufficiente lavoro. Nello
stesso tempo gli operai del cantiere Orlando di Livorno facevano dimostrazioni
addomesticate per reclamare che lo stato desse lavoro al cantiere Orlando
(Avanti!, 14 maggio 1913). E i deputati di Napoli si recavano
dall'On. Giolitti a chiedere «nuovi ordinativi per affusti, cannoni, spolette e
proiettili» agli stabilimenti di Napoli, affinché non avvenissero nuovi
licenziamenti di operai metallurgici (Corriere della Sera, 24 maggio). E
i giornali clerico-moderati-nazionalisti spingevano avanti la campagna, affinché
il governo impostasse nei cantieri quattro nuove grandi corazzate».
Durante
la settimana Rossa i centri industriali si mantennero fermi. Durante
l'agitazione interventista, i centri industriali furono al di sotto delle
campagne nelle manifestazioni antiguerresche. Durante le agitazioni del
dopo-guerra i centri industriali furono i più lenti a rispondere. Contro il
fascismo nessun centro industriale insorse come Parma, come Firenze e come
Ancona, e la massa operaia non ha dato alcun episodio collettivo di tenacia e di
spirito di sacrificio che eguagli quello di Molinella.
Gli
scioperi agrari del modenese e del parmense rimangono, nella storia della guerra
di classe italiana, le sole pagine epiche. E le figure più generose di
organizzatori operai le hanno date le Puglie. Ma tutto questo è misconosciuto.
Si scrive e si parla dell'occupazione delle fabbriche, e quella delle terre, ben
più grandiosa come importanza, è quasi dimenticata. Si esalta il proletariato
industriale, mentre ognuno di noi, se ha vissuto e lottato nelle regioni
eminentemente agricole, sa che le campagne hanno sempre alimentato le agitazioni
politiche d'avanguardia delle città e hanno sempre dato prova, nel campo
sindacale in ispecie, di generosa combattività”.
"Facile
previsione: vi sarà un mandarino che scriverà che non ho un’ «anima proletaria»
e vi saranno dei lettori che capiranno che ho inteso svalorizzare il
proletariato.
Per
me risponde un’eco: quella dei calorosi applausi che salutano nei cantieri e
nelle officine dell'industria di guerra l'annuncio del sottomarino da costruire
o dei cannoni da fondere.
Per
me risponde la tattica comunista consigliante di agire all'interno delle
corporazioni e per le rivendicazioni economiche.
Per
me risponde, anzitutto la rassegnazione del proletariato italiano, specie di
quello industriale. Attendere che il popolo si risvegli, parlare di azione di
masse, ridurre la lotta anti fascista allo sviluppo e al mantenimento di quadri
di partito e di sindacato invece di concentrare mezzi e volontà sull’azione
rivoluzionaria che, sola, può rompere l'atmosfera di avvilimento morale in cui
il proletariato italiano sta pervertendosi interamente, è viltà, è idiozia, è
tradimento".
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