Le periferie
tornano al centro. Da circa tre settimane, da quando un giovane Jan Palach
tunisino ha deciso di togliersi la vita dandosi fuoco in protesta per le misere
condizioni in cui era costretto a vivere, il Maghreb è stato incendiato dalla
rivolta popolare. In questi giorni, anche l’Algeria esplode. Esplode la rabbia
di tutta una generazione che ha visto l’innalzamento improvviso dei prezzi degli
alimenti di prima necessità. Pane, riso, olio, zucchero, latte hanno subito
aumenti pari al 20-30%. Una situazione insostenibile per una popolazione già
martoriata. La rivolta scoppia ad Algeri, ma anche nelle città di Orano, Tipaza,
Costantina, Djelfa, Blinda. Mentre il governo, guidato dal corrotto Boutefika,
si disinteressa delle ricchezze del sottosuolo della nazione (sono calcolati
giacimenti di petrolio per 12 miliardi di barili, ma anche gas, uranio e altri
metalli), la disoccupazione supera il 25% e i giovani algerini, maggioranza
della popolazione (il 75% ha un’età media di 30 anni), aprono gli occhi su un
futuro che non esiste.
“Urliamo,
bruciamo e spacchiamo tutto, perché è l’unico linguaggio che riescono a capire
[i governanti]. Non ne possiamo più di una vita senza un domani […] non possiamo
continuare a vivere sperando un giorno di riuscire a fuggire in Europa”. Così i
giovani agitatori dei quartieri popolari sintetizzano ciò che è in animo a ogni
rivoltoso. Ed è rivolta. I negozi di generi di prima necessità (ma anche, perché
no, le gioiellerie) sono saccheggiati, uffici postali e governativi assaltati,
commissariati dati alle fiamme, così come le banche e le sedi del colosso
energetico Sonelgoz.
La
condizione di povertà per tutti è chiara come quella della ricchezza per pochi
e, riecheggiando uno slogan della ribellione delle banlieue parigine di qualche
tempo fa, anche i giovani magrebini cominciano a proporsi di “andare dai
ricchi”, tentando di assaltare i quartieri bene della capitale. La polizia
reagisce, spara, carica, uccide (almeno tre i morti, centinaia i feriti). Le
leggi eccezionali varate nel 1992 (l’anno seguente dell’elezione di Boutefika
alla presidenza) vengono rispolverate per impedire i cortei, ma anche le partite
di calcio. Le voci dissonanti dei cantastorie contemporanei vengono censurate
con l’arresto di blogger e rapper, mentre anche i lavoratori più miti vengono
duramente repressi, come è avvenuto durante il corteo degli avvocati.
Gli Immam,
probabilmente sorpresi dall’iniziativa sociale, fanno da pompieri, mentre per le
strade un caos materiato di rabbia e dignità si espande, incendiando alche la
più lontana cittadina. Il governo, spaventato, annuncia che ritirerà gli aumenti
dei prezzi. Nessuno gli crede ma sarebbe già il primo risultato concreto della
rivolta. Ma forse è qualcosa di più profondo a scuotere gli animi dei giovani
magrebini. È forse quella decolonizzazione lasciata a metà, quella transizione
infinita verso l’indipendenza nazionale (mai emancipazione sociale), quella
monarchia personale di Boutefika (che ha cambiato la costituzione per poter
rimanere al governo sine die)
travestita da repubblica e democrazia, quell’immaginario impossibile del futuro
a scuotere le viscere della popolazione.
Intanto
alcuni osservatori intelligenti in loco, come quelli del quotidiano El Watan, s’interrogano sul divario tra
popolazione e Stato che sta esplodendo come una vera contraddizione. Un divario
composto da interessi materiali contrapposti e che si è cominciato a manifestare
con la grossa astensione alle elezioni del 2009, astensione che si trasformò in
un vero e proprio “boicottaggio”, “segnando la rottura tra il potere e i
cittadini”.
Dalle periferie del Mediterraneo, come quelle
parigine di qualche anno fa, la gioventù immigrante/emigrante riaccende fuochi
con cui scaldare un futuro possibile. La
Banlieue è il mondo, titolava un editoriale di “N+1”. Di sicuro, con
l’insorgenza greca, la ripresa della lotta di classe in Francia e gli sprazzi di
ribellione in Spagna e in Italia, la Banlieue, oggi, è il Mediterraneo, mai
così… mare
nostrum.
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