giovedì 13 settembre 2012

Con il sangue agli occhi

Ci risiamo.

Da due notti caccia bombardieri francesi, inglesi, canadesi, italiani e i sommergibili nucleari yankee hanno iniziato a bombardare le città della costa libica. Il democratico Obama è alla testa di un’ennesima guerra dell’Occidente nei confronti del mondo arabo. Come al solito la scusa è: aiutare i “poveri popoli martoriati da tiranni sanguinari”. Un insopportabile paternalismo imperialista dietro il quale si nasconde ben altro.

Innanzitutto la Rivoluzione araba fa paura, all’Occidente quanto ai dittatori locali. La ripresa del protagonismo delle masse in tutto Nord Africa, e in parti consistenti della penisola arabica, è un elemento non tollerabile per chi, dal 1991, muove guerra per controllare le risorse energetiche naturali di quei luoghi; per chi da circa un decennio ci ammorba con la storia della guerra al terrorismo e che oggi rischia di dover fronteggiare qualcosa di ancor più terribile: la Rivoluzione che, tra le strade polverose delle città del sud del Mediterraneo, risorge, si estende e vince, in vari modi, ovunque si affacci sulla scena. Intollerabile che i pezzenti riprendano la parola, tanto più il fucile. Intollerabile che l’Internazionale sovversiva si dispieghi nei fatti e che risulti così contagiosa. L’attacco militare è la pietra tombale su un processo rivoluzionario generale che si va dispiegando anche in Libia. Una rivoluzione può perdere, è quella libica avrebbe con tutta probabilità perso. Ma l’intervento imperialista, lungi dal sostenere il popolo in rivolta (con i suoi consigli di autogoverno, con le sue milizie, ecc), va a minare le basi stesse sulle quali i “pezzenti” libici hanno fin’ora potuto agire direttamente. Il processo rivoluzionario muore lì dove la gente di Bengasi saluta i jet francesi come “amici e fratelli”. Oltre a massacrare ulteriormente la popolazione (i missili occidentali, oltre a colpire qualche tank con la bandiera verde, stanno cadendo a pioggia sulle città!!), i bombardamenti instaurano un elemento di delega, e una sudditanza immediata. Se e quando questa guerra avrà fine, la popolazione sarà talmente martoriata da accettare qualsiasi soluzione, anche un ritorno al passato, anche peggio, anche di sottostare - cosa fin’ora non avvenuta - alle correnti politiche/religiose reazionarie o di essere depredata dal resto dell’Occidente. L’intervento americano rischia di spingere il processo rivoluzionario lì dove, fin’ora, si era rifiutato di arrivare, rischia di stendere tappeti rossi all’ingresso di farneticazioni islamiste e nazionaliste.

L’intervento militare occidentale ha sicuramente tra i suoi obiettivi quello tardo colonialista di accaparrarsi le risorse del ricco sottosuolo libico. È chiaramente ed essenzialmente un atto di aggressione imperialista, ma è anche, e forse soprattutto, un atto spudorato di controrivoluzione. Il signor Gheddafi è stato tollerato e sostenuto apertamente (fino alle genuflessioni berlusconiane) da tutto l’Occidente fin quando è riuscito a sottomettere il popolo libico. Anche durante la guerra civile di queste settimane la diplomazia democratica è rimasta a guardare, non mettendo in campo alcuna strategia per sostenere la rivolta. L’Occidente consapevole che la vittoria militare del Colonnello su Bengasi non avrebbe ricacciato indietro una rivolta così radicata in ampie zone del paese, è intervenuto direttamente. Bruciarsi l’alleato di ieri non è un problema per chi domina il mondo, non sarebbe la prima volta.

La Rivoluzione araba è destinata a risorgere. Forse non in Libia dove ormai si agita in acque fin troppo inquinate. Domani il sole sorgerà ancora. Dovrà albeggiare a lungo su altre coste del Mediterraneo e dell’Arabia Saudita, prima di tornare a splendere sulle strade polverose di Bengasi e di Tripoli.

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