Riproponiamo anche dopo qualche anno l'editoriale della rivista "n + 1" sulle rivolte nelle periferie parigine del 2005, per ciò che ci riguarda, prodromo di eventi attuali. StellaNera
La banlieue è il mondo
(editoriale di "n + 1", n. 19, 2006)
Si ha polarizzazione quando gli elementi di un "campo" o
"sistema" si dispongono secondo orientamenti particolari intorno a due poli
opposti. La nostra corrente usò questa metafora per definire la tipica crisi
rivoluzionaria, dove le tendenze fra conservazione e cambiamento si dispongono
agli estremi opposti. In quei momenti, il particolare stato delle molecole
sociali è simile a quello che troviamo poco prima di una scarica elettrica: fra
i due poli si verifica una ionizzazione dell'aria, una situazione di
instabilità catastrofica che ne capovolge le caratteristiche, per cui l'aria
stessa da isolante diventa conduttiva, con conseguente scarica elettrica
violenta.
La società moderna tende a esasperare i suoi estremi e ci offre
la verifica sperimentale della marxiana legge della miseria relativa crescente.
A un polo sta la classe borghese con le sue rappresentanze, all'altro chi è
schierato contro e non ha rappresentanze di sorta entro il sistema. In
mezzo brulica una palude sociale che conta soltanto come carne da consumo e da
scheda elettorale. L'area di mezzo è composta da atomi di un'atmosfera non
ancora ionizzata. Essi formano mezze classi e non-classi: bottegai,
professionisti, studenti, salariati proprietari e integrati, intellettuali
cerchiobottisti che cercano di spiegare tutto con una filosofia di compromesso
determinata materialmente dalla loro condizione, schiacciati dai vertici della
civiltà e presi a mazzate, non sempre metaforicamente, dalla base selvaggia.
I confini sono sfumati, ma da un po' di tempo a questa parte,
specie in Francia, la polarizzazione ha separato in modo del tutto evidente i
rappresentanti del Capitale dai dannati del capitalismo. E la palude delle
molecole instabili che sta in mezzo si agita rivendicando di esistere, cioè di
non essere precipitata fra i dannati. Perché queste molecole possono sognare di
mettersi al servizio del Capitale più di quanto già non facciano, ma da quella
parte l'accesso è contingentato, mentre le autostrade verso la dannazione sono
ampie e a pedaggio libero.
I capitalisti sono facili da definire e i dannati anche.
Riuscire a farlo con la palude di mezzo sembrerebbe più difficile. Ma è
un'impressione. Proprio perché è facile definire i poli estremi, è anche facile
definire, per esclusione, l'atmosfera intermedia che va ionizzandosi. La storia
ci ha semplificato le cose, per esempio togliendoci dai piedi la servitù
tradizionale, il lumpenproletariato, il "padrone delle ferriere" (diventato un
redditiero o azionista che delega le sue antiche prerogative a dei tecnici
stipendiati), e anche il proletariato ideale, quell'eroico facitore di
storia inventato da un'Internazionale comunista degenerata e che compare ancora
nelle fantasie di molti. Abbiamo dunque una società che si polarizza sempre più
intorno a due sole importanti classi sociali, e ci basta dire che tutto ciò che
non corrisponde alla vecchia buona definizione di classe sta nel mezzo, è una
poltiglia interclassista. Ed è spaventosamente sproporzionata rispetto al totale
della popolazione di un paese moderno. Per esclusione diremo che essa non
è fatta di: 1) proletari che vivono esclusivamente del proprio salario o sono
licenziati o non hanno mai trovato un lavoro; 2) rappresentanti fisici del
Capitale, proprietari o meno.
Una cinquantina di anni fa, in risposta ai soliti e noiosissimi
dibattiti intorno a chi è proletario e chi no, vera manìa del sociologo borghese
che vuole schedare poliziescamente una realtà dinamica e complessa, la nostra
corrente disse che il conto non si fa con l'anagrafe (nato in fabbrica; occhi
castani; professione proletario), bensì sulla base di un insieme coerente che
abbracci il salariato, il precario e chi proprio non ha lavoro-salario ma
potrebbe avere solo quello.
Una volta stabilito questo criterio, non ha più nessuna
importanza la ricerca sociologica intorno alla figura del banlieusard che
incendia automobili. È fin troppo evidente che per quella via ci si mette nei
pasticci, perché da una parte la racaille, la feccia, rappresenta una
ribellione nei confronti del capitalismo, ma dall'altra è anche quello
che dice il ministero dell'Interno Sarkozy, un'accozzaglia di teppisti che
bruciano e spaccano senza neppure uno straccio di rivendicazione e di
rappresentanza. Quel che interessa è il fenomeno generale determinato dal
suddetto conto di classe e non dalla psicologia di ogni singolo ragazzino
incendiario figlio di immigrati, emarginato, non integrato, frustrato, ecc. ecc.
Interessa l'esplosione di un fenomeno urbano che si verifica in uno dei paesi
più industrializzati del mondo, malato non certo di sottosviluppo ma di
industrializzazione.
L'anonimo partecipante a uno dei tanti forum internettiani sui
fatti francesi faceva notare che è ben strano definire "fenomeno urbano
postmoderno" la lotta selvaggia e spontanea dei banlieusards, mentre di
solito viene chiamata "sciopero selvaggio" ogni lotta operaia ben organizzata ma
non obbediente agli ordini sindacali. In realtà entrambi sono fenomeni
"postmoderni", nel senso che sia i banlieusards che gli operai in lotta
per sé devono rompere ogni legame con l'ordine esistente, prodotto del
capitalismo ultramaturo. Nel primo caso rifiutando la rassicurante politica
d'integrazione del governo francese con i suoi risvolti assistenziali e l'uso di
banlieusards traditori, nel secondo caso scontrandosi con la politica
nazional-corporativa del mostruoso blocco sociale
industria-governo-sindacati.
In ognuno dei due casi la rottura con l'ordine costituito deve
passare attraverso qualche forma di auto-organizzazione su basi materiali
preesistenti. Non si incendiano la capitale di un paese avanzato come la Francia
e altre centinaia di città senza che sia utilizzata in modo del tutto
naturale la rete di comunicazioni − dai cellulari a Internet − parte integrante
dello stesso sistema industriale che catapulta i "teppisti selvaggi" nelle
strade a scatenare la guerriglia per tre settimane. Non si organizzano scioperi
spontanei, sarebbe una contraddizione in termini: sulla base dell'organizzazione
di fabbrica gli scioperi cosiddetti spontanei nascono organizzati.
Quando scoppiò l'incendio delle banlieues avevamo da
poco pubblicato l'articolo Una vita senza senso, dove attribuivamo allo
sfacelo capitalistico non solo le rivolte urbane ma anche altri fenomeni, tra i
quali le grandiose manifestazioni rivendicative con radici reali ma obiettivi
fasulli. Era appena stata stroncata l'ondata incendiaria, che si sollevava,
sempre in Francia, un'ondata rivendicativa con milioni di persone in piazza,
ripetutamente. Si è manifestato contro una legge specifica (il CPE, contratto
primo impiego), ma si capisce benissimo che essa di per sé non era niente di
speciale, era solo un capro espiatorio su cui riversare il disagio di uno strato
sociale. Non una delle dodici (dodici!) delegazioni interclassiste "perbene"
ricevute da Sarkozy − improvvisatosi mediatore dopo aver fatto la parte del boia
− ha tentato in qualche modo di rappresentare il disagio reale. Ha trionfato
invece la sua manifestazione riformista esteriore, l'impotenza amministrativa di
fronte alle cifre, il tran tran della politica. Nessun decreto governativo può
modificare lo stato di cose esistente, dato che prende semplicemente atto
(malamente) di ciò che già succede, come da noi nel caso della Legge Biagi e,
prima ancora, dell'Articolo 18, che hanno mobilitato milioni e milioni di
persone "per nulla". D'altra parte la classe operaia francese sulle piazze non
c'era e gli stessi sindacati hanno ammesso che lo sciopero nelle fabbriche non è
riuscito. In confronto, la mancanza di rivendicazione, la ribellione pura, non
incanalata dei banlieusards, sembrerebbe molto più significativa.
Tuttavia i milioni di manifestanti, proletari o no, sono stati
mossi da un disagio profondo, da un'insicurezza totale, dalla percezione che non
se ne può più. Una situazione che porta milioni di persone in piazza non è mai
da sottovalutare, e l'intreccio con gli scioperi proletari, riusciti o no, la
rende ancora più contraddittoria e significativa. Le apparenti somiglianze con
un Sessantotto i cui esponenti noi abbiamo già criticato a suo tempo non devono
ingannare, così come non deve fuorviare l'apparente continuità con i moti delle
banlieues. L'insieme di queste manifestazioni è più importante dei moti
del '68 per la ragione materiale che ne è alla base, ma le lotte contro il CPE
non sono in continuità con gli scontri nelle banlieues, sono
complementari, li integrano, procedono in parallelo senza per ora
incontrarsi.
Le banlieues sono esplose perché a un proletariato
estremo, disoccupato, escluso anche per fattori etnici, bastava una piccola
scintilla per far emergere la propria rabbia. I milioni in lotta contro il CPE
hanno invece protestato non tanto per la loro condizione attuale quanto per
l'incertezza riservata dal futuro, incanalando la rabbia in una forma
istituzionale. Mentre i banlieusards hanno obbligato persino il ministro
di polizia a invocare di fronte al parlamento addirittura la costruzione di una
nuova società, gli studenti e i lavoratori hanno rivendicato la conservazione
dell'esistente contro una minaccia futura. Secondo The Economist, che
cita un non troppo stupefacente sondaggio, il 75% dei giovani francesi ambirebbe
a un posto sicuro nel pubblico impiego. Di fronte a un sondaggista con tali
domande, un banlieusard avrebbe semplicemente risposto ciò che
effettivamente fu gridato a Sarkozy durante una delle sue ispezioni sul campo:
"Va niquer ta mère!" (va a fottere tua madre). È inutile predicare che ci
vorrebbe ben altro, che i banlieusards non sono proletari, che se anche
lo fossero ci vorrebbe il partito, che se anche ci fosse il partito dovrebbe
essere quello specifico, fra le migliaia, di chi sta parlando o scrivendo in
quel momento. Troviamo che questo uso astratto di terminologia slegata dalla
realtà non sia affatto espressione del polo rivoluzionario ma della palude di
mezzo. Il fatto empirico di uno svolgersi di avvenimenti secondo gli schemi
classici delle catastrofi sociali, e non secondo il copione metafisico che c'è
nella testa degli intellettuali, dimostra chiarissimamente quanto sia potente
l'effetto polarizzatore previsto e già ripetutamente verificato dalla nostra
dottrina.
La sequenza è impressionante ma di una chiarezza cristallina: i
dannati senza-riserve delle metropoli insorgono; lo Stato, per mezzo del suo
ministro di polizia Sarkozy dichiara il coprifuoco e chiede leggi eccezionali.
Gli strati di mezzo si mobilitano preventivamente per non finire nel girone dei
dannati, quindi per gli stessi motivi sociali, e scatenano una loro lotta
specifica e separata, in veste di futuri disoccupati; lo Stato sconfessa
l'intransigente capo del governo in carica de Villepin e attiva una linea di
trattative condotta da quello stesso Sarkozy che ha attuato la repressione
spietata nei confronti dei dannati. I due campi, finché sono diversi, impongono
scelte diverse, chiedono e ricevono trattamenti diversi, quindi rimangono
inesorabilmente distanti e separati. Le banlieues non hanno partecipato
alle grandi manifestazioni riformiste prolo-studentesche. Alla Sorbona c'era
molta agitazione, ma alle facoltà di Paris-VIII in Seine-Saint-Denis tutto era
tranquillo: per un banlieusard l'università non è un punto di partenza ma
d'arrivo. Non c'è quindi da stupirsi se bande di dannati veri assaltano i cortei
e rubano tutto quel che capita, dai telefonini alle scarpe da ginnastica,
rafforzando la polarizzazione. Non c'è da stupirsi se i servizi d'ordine
sindacali e persino di ex "estremisti" sinistrorsi si armano di bastoni e
affiancano la polizia nella repressione.
Stampa e televisione si scatenano e la spaventosa fascia di
mezzo è costretta finalmente a ionizzarsi, cioè ad essere strattonata da una
parte e dall'altra fino a rompersi. Adesso qualcuno può (forse) capire perché un
teppista di periferia, oltre ad essere il prodotto materiale degenerato di un
capitalismo putrefatto, è nello stesso tempo un elemento altrettanto materiale,
fattore di rottura, di schieramento, di polarizzazione. Sta avvenendo, perché il
teppista ha costretto tutti a schierarsi, dilatando la banlieue al mondo
intero. Non tutti hanno sposato la tesi della palude e preso le distanze dagli
incendi; non tutti i sinistri hanno accampato repellenti giustificazioni per la
loro ricerca di una rivoluzione "angelicata" dell'inesistente proletariato puro.
Hanno accettato, come si accetta in meteorologia, che insieme ai fulmini, cioè
alle polarizzazioni eclatanti, "pulite", ci siano i fenomeni "sporchi" come
l'acqua delle alluvioni che muggisce violenta e tutto travolge.
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