domenica 30 settembre 2012

E Malatesta, "Il gradualismo rivoluzionario" (1925)

(titolo originale Gradualismo, da "Pensiero e Volontà", 1 ottobre 1925.)
 
Nelle polemiche che sorgono tra gli anarchici sulla tattica migliore per giungere o avvicinarsi alla realizzazione dell’anarchia e sono polemiche utili, anzi necessarie, quando sono ispirate alla mutua tolleranza ed alla mutua fiducia e non trascendono in odiose questioni personali avviene sovente che gli uni in tono di rimprovero chiamano gli altri gradualisti e questi respingono la qualifica come se fosse un’ingiuria. Ed intanto il fatto e che, nel senso proprio della parola, gradualisti siamo tutti, e tutti, sia pure in modi diversi, dobbiamo esserlo per la logica stessa dei nostri principi.
E’ vero che certe parole, specialmente in politica, cambiano continuamente di significato e spesso ne assumono uno contrario a quello originale, logico e naturale. Gioverebbe mettere un freno a questo sistema di usare le parole in un senso diverso dal loro proprio, che è fonte di tante confusioni e tanti malintesi. Ma chi potrebbe riuscirvi, specie quando il cambiamento e prodotto dall’interesse che hanno i politicanti a coprire con buone parole i loro fini malvagi?
Potrebbe darsi dunque che la parola gradualista, applicata agli anarchici, finisse coll’indicare davvero quelli che colla scusa di fare le cose gradualmente, a misura che diventano possibili, finiscono col non muoversi più o col muoversi in una direzione opposta a quella che conduce all’anarchia. E allora bisognerebbe respingere il nome; ma la cosa resterebbe vera lo stesso, cioè che tutto nella natura e nella vita procede a gradi e che, applicando al caso nostro, l’anarchia non può venire che poco a poco.
L’anarchismo, dicevo, deve essere necessariamente gradualista. Si può concepire l’anarchia come la perfezione assoluta, ed è bene che quella concezione resti sempre presente alla nostra mente, quale faro ideale che guida i nostri
passi. Ma è evidente che quell’ideale non può raggiungersi d’un salto, passando di botto dall’inferno attuale al paradiso agognato. I partiti autoritari, quelli cioè che credono morale ed espediente imporre colla forza una data costituzione sociale, possono sperare (vana speranza del resto!) che, quando si saranno impossessati del potere, potranno a forza di leggi, decreti … e gendarmi sottoporre tutti e durevolmente al loro volere.
Ma una tale speranza ed un tale volere non sono concepibili negli anarchici, i quali non vogliono nulla imporre salvo il rispetto della liberta e contano per la realizzazione dei loro ideali sulla persuasione e sui vantaggi sperimentati della libera cooperazione. Ciò non significa che io creda (come a scopo polemico mi ha fatto dire un giornale riformista poco informato o poco scrupoloso) che per fare l’anarchia bisogna aspettare che tutti siano anarchici. Io credo al contrario
e perciò sono rivoluzionario che nelle condizioni attuali solo una piccola minoranza favorita da circostanze speciali possa arrivare a concepire l’anarchia, e che sarebbe una chimera lo sperare nella conversione generale se prima non si cambia l’ambiente, nel quale prosperano l’autorità ed il privilegio. Ed appunto per questo credo che bisogna, appena è possibile, cioè appena si sia conquistata la liberta sufficiente e vi sia in un dato luogo un nucleo di anarchici abbastanza forte per numero e capacita da bastare a se stesso ed irradiare intorno a sé la propria influenza, bisogna, dico, organizzarsi per applicare l’anarchia o quel tanto di anarchia che diventa mano a mano possibile.
Poiché non si può convertire la gente tutta in una volta e non si può isolarsi per necessità di vita e per l’interesse della propaganda bisogna cercare il modo di realizzare quanto più di anarchia è possibile in mezzo a gente che non è anarchica o lo è in gradi diversi.
Il problema dunque non è se bisogna o no procedere gradualmente, ma quello di cercare quale è la via che più rapidamente e più sinceramente conduce all’attuazione dei nostri ideali. Oggi in tutti i paesi del mondo la via è preclusa dai privilegi conquistati attraverso una lunga storia di violenze e di errori, da certe classi, che oltre la supremazia intellettuale e tecnica che deriva loro da quei privilegi, dispongono per difendere la loro posizione della forza bruta assoldata nelle classi soggette e ne usano, quando occorre, senza scrupoli e senza limite. Perciò è necessaria una rivoluzione, la quale distrugga lo stato di violenza nel quale oggi si vive e renda possibile la pacifica evoluzione verso sempre maggiore libertà, maggiore giustizia, maggiore solidarietà
Quale dovrebbe essere la tattica degli anarchici prima, durante e dopo la rivoluzione? Quello che sarebbe necessario fare prima della rivoluzione per prepararla ed attuarla la censura forse non lo lascerebbe dire; ed in ogni modo e sempre un argomento che si tratta male in presenza del nemico. Ci sarà però lecito il dire che bisogna restare sempre se stessi, propagare ed educare il più possibile, fuggire ogni transazione col nemico e tenersi pronti, almeno spiritualmente, per
afferrare tutte le occasioni che si possono presentare.
Durante la rivoluzione?
Incominciamo col dire che la rivoluzione non la possiamo fare noi soli; e non sarebbe, a parte la questione della forza materiale, nemmeno desiderabile il farla da soli; perché se non si mettono in movimento tutte le forze spirituali del paese e con esse tutti gl’interessi e tutte le aspirazioni palesi o latenti che stanno nel popolo, la rivoluzione sarebbe un aborto. E nel caso, poco probabile, che vincessimo da soli, ci troveremmo nell’assurda posizione o di imporsi, comandare, costringere gli altri e quindi cessare di essere anarchici ed uccidere la rivoluzione stessa col nostro autoritarismo, oppure di fare per viltade il gran rifiuto, cioè ritrarci indietro e lasciare che altri profitti dell’opera nostra per scopi opposti ai nostri.
Bisognerebbe dunque agire di conserva con tutte le forze progressiste esistenti, con tutti i partiti d’avanguardia ed attirare nel movimento, sommuovere, interessare le grandi masse, lasciando che la rivoluzione, della quale noi saremmo un fattore fra gli altri, produca quello che può produrre. Ma non per questo dovremmo rinunziare al nostro scopo specifico: al contrario dovremmo tenerci ben uniti tra noi e ben distinti dagli altri per combattere in favore del nostro programma: abolizione del potere politico ed espropriazione dei capitalisti. E se, nonostante i nostri sforzi, riuscissero a costituirsi nuovi poteri che vogliono ostacolare l’iniziativa popolare ed imporre il loro volere, noi dovremmo non parteciparvi, non riconoscerli mai cercare che il popolo rifiuti loro i mezzi per governare, cioè i soldati e le contribuzioni, fare in modo ch’essi restino deboli … fino al giorno in cui si potrà abbatterli del tutto. In tutti i casi reclamare ed esigere, magari colla forza, la nostra piena autonomia ed il diritto ed i mezzi per organizzarci a modo nostro ed esperimentare i metodi nostri.
E dopo la rivoluzione, cioè dopo la caduta del potere esistente ed il trionfo definitivo delle forze insorte?
Qui entra veramente in campo il gradualismo. Bisogna studiare tutti i problemi pratici della vita: produzione, scambio, mezzi di comunicazione, relazioni fra gli aggruppamenti anarchici e quelli che vivono sotto un’autorità, tra collettività comunistiche e quelli che vivono in regime individualistico, rapporti tra città e campagna, utilizzazione a vantaggio di tutti delle forze naturali e delle materie prime, distribuzione delle industrie e delle colture secondo le condizioni naturali dei vari paesi, istruzione pubblica, cura dei fanciulli e degl’impotenti, servizi igienici e medici, difesa contro i delinquenti comuni e quelli più pericolosi, che tentassero ancora di sopprimere la libertà degli altri a vantaggio di individui o di partiti, ecc, ecc. E d’ogni problema preferire quelle soluzioni che non solo sono economicamente più
convenienti, ma che rispondono meglio al bisogno di giustizia e di libertà e lasciano più aperta la via ai futuri miglioramenti, Nel caso, anteporre la giustizia, la libertà, la solidarietà ai vantaggi economici.
Non bisogna proporsi di tutto distruggere credendo che poi le cose si aggiusteranno da loro. La civiltà attuale e frutto di una evoluzione millenaria ed ha risolto in qualche modo il problema della convivenza di milioni e milioni di uomini, spesso affollati sopra territori ristretti, e quello della soddisfazione di bisogni sempre crescenti e sempre più complicati. I suoi benefici sono diminuiti e per la gran massa quasi annullati dal fatto che l’evoluzione si è compiuta sotto la pressione dell’autorità e nell’interesse dei dominatori; ma se si toglie l’autorità ed il privilegio, restano sempre i vantaggi acquisiti, i trionfi dell’uomo sulle forze avverse della natura l’esperienza accumulata dalle generazioni estinte, le abitudini di socievolezza contratte nella lunga convivenza e negli esperimentati benefici del mutuo appoggio e sarebbe stolto, e del resto impossibile, rinunziare a tutto questo.
Noi dobbiamo dunque combattere l’autorità ed il privilegio, ma profittare di tutti i benefici della civiltà; e nulla distruggere di quanto soddisfi, sia pur malamente, ad un bisogno umano se non quando abbiamo qualche cosa di meglio da sostituirvi.
Intransigenti contro ogni imposizione ed ogni sfruttamento capitalistico, noi dovremo essere tolleranti con tutte le concezioni sociali che prevalgono nei vari raggruppamenti umani, purchè non ledano la libertà ed il diritto uguale degli altri; e contentarci di progredire gradualmente a misura che si eleva il livello morale degli uomini e crescono i mezzi materiali ed intellettuali di cui dispone l’umanità facendo, questo s’intende, il più che possiamo con lo studio, il lavoro, la propaganda, per affrettare l’evoluzione verso ideali sempre più alti.
Io ho qui sopra prospettato dei problemi più che delle soluzioni; ma credo di avere esposto succintamente i criteri che debbono guidarci nella ricerca e nell’applicazione delle soluzioni, le quali saranno certamente varie e variabili a seconda delle circostanze ma dovranno sempre uniformarsi, per quanto dipende da noi, ai principi basilari dell’anarchismo: nessun comando dell’uomo sull’uomo, nessuno sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
Ai compagni tutti il compito di pensare, studiare, prepararsi e farlo sollecitamente ed intensamente, perché
i tempi sonodinamicied occorre tenersi pronti per ciò che può accadere.

venerdì 28 settembre 2012

M. Rossi, Arditi, non gendarmi!

Marco ROSSI
ARDITI, NON GENDARMI!
Dalle trincee alle barricate: arditismo di guerra e arditi del popolo (1917-1922)

Prefazione di Eros Francescangeli

Gli Arditi del popolo, prima espressione dell’antifascismo in armi, si opposero con ogni mezzo agli squadristi di Mussolini alla vigilia della sua salita al potere, nella guerra civile seguita alla Prima guerra mondiale. Anche se per breve tempo, la loro azione fu al centro delle cronache dell’epoca e tutti gli schieramenti politici dovettero misurarvisi. Ciò nonostante, è stata oggetto di una lunga rimozione: il fatto che ex-combattenti, veterani dei reparti d’assalto, non solo si fossero sottratti alla strumentalizzazione mussoliniana, ma vi si fossero opposti anche con le armi contendendo al fascismo l’eredità “spirituale” dell’arditismo, ha rappresentato un precedente scomodo, difficile da interpretare. Ancora oggi la storiografia stenta a distinguere i ruoli giocati rispettivamente da arditi, futuristi, legionari fiumani e sindacalisti rivoluzionari in una situazione instabile e contraddittoria quale fu quella del Primo dopoguerra. La nuova edizione rivista e ampliata di Arditi, non gendarmi! ripercorre le tracce che dal fango delle trincee, passando attraverso le piazze di Fiume, portarono alle barricate dell’autodifesa proletaria contro l’aggressione fascista.

Indice
- Il petardo dell’adunata, di Eros Francescangeli
- Premessa, a posteriori
- I futuristi della guerra
- Delitto e castigo
- Nelle trincee della guerra sociale
- Arditi e fascisti
- Fiume ardita d’Italia
- Le Bal des Ardents
- Il fiumanesimo
- Figli di nessuno e Ardite rosse
- Argo Secondari
- Sangue del nostro sangue
- Dal nulla sorgemmo
- Difesa proletaria
- L’insegnamento di Parma
- Rosso contro tricolore
- Guerra sia...
- Epilogo
- Appendice
- Indice dei nomi

G. Bosio, I conti con i fatti

Gianni Bosio
I CONTI CON I FATTI
Saggi su Cafiero, Musini e l'occupazione delle fabbriche
 
La classe operaia opera, costruisce, si organizza, pensa e si esprime in maniera propria...
Gianni Bosio ha dedicato particolare attenzione al periodo 1870-1921, durante il quale il movimento operaio fu relativamente spontaneo, dimostrando una creatività organizzativa non più raggiunta in seguito. L’attenzione su quel periodo ha oggi – nel momento cioè di una crisi irreversibile delle tradi-zionali organizzazioni operaie – forse più che ieri, implicazioni storiografiche e conseguenze politiche di grande rilievo.
La geniale figura dell’organizzatore di cultura, ha fatto un po’ dimenticare l’originalissimo e innovativo apporto del Bosio storico. Queste sue ricerche su Carlo Cafiero, Luigi Musini e sull’occupazione delle fabbriche, ieri pietre miliari nella non facile ricostruzione della storia del movimento operaio italiano, mantengono oggi tutto il loro interesse e la loro freschezza, riproponendo interrogativi politici tutt’altro che esauriti.
GIANNI BOSIO (Acquanegra sul Chiese, 1923 – Mantova, 1971) è stato uno dei più importanti storici del movimento operaio. Fondatore nel 1949 della rivista Movimento operaio, nel 1953 delle Edizioni Avanti!, nel 1965 dell’Istituto Ernesto de Martino, è stato anche il più ragguardevole rappresentante della prima generazione di storici oralisti. Curatore degli Scritti italiani di Marx ed Engels (Edizioni Avanti!, 1955), è autore tra l’altro de Il trattore ad Acquanegra (De Donato, 1981) e degli scritti contenuti ne L’intellettuale rovesciato (seconda edizione accresciuta, Istituto de Martino /Jaca Book, 1998).
CESARE BERMANI (Novara, 1937 - ), dell’Istituto de Martino, curatore di più volumi di scritti di Gianni Bosio, è stato tra i primi a utilizzare criticamente le fonti orali ai fini della comprensione di passato e presente. È autore, tra l’altro, di Pagine di guerriglia (4 vol., 1971-1999, Istituto Storico della Resistenza di Borgosesia) e di Introduzione alla Soria orale (2 vol., 1999-2001, Roma, Odradek edizioni.
 
 
ODRADEK.IT

giovedì 27 settembre 2012

Bakunin, "Lo Stato non è la patria"

Lettera di Michail Bakunin indirizzata ai compagni anarchici italiani
La gioventù mazziniano-garibaldina non s’era mai posta questa domanda:Che rappresenta effettivamente un tale Stato italiano pel popolo? Perché mai deve amarlo e tutto a lui sacrificare? Quando si faceva questa domanda a Mazzini - e ciò non accadeva che raramente, tanto sembrava semplice e facile - egli rispondeva con gran parole: <<Patria donata da Dio!Santa missione storica! Culto delle tombe!Ricordo solenne dei martiri! Lungo e glorioso sviluppo delle tradizioni! Roma antica! Roma dei papi! Gregorio VIII! Dante! Savonarola! Roma del popolo!>>. Tutto ciò era così nebuloso, così bello, e nel medesimo tempo sì assurdo, da essere sufficiente per abbagliare e stordire i giovani spiriti, più adatti d’altronde all’entusiasmo e alla fede che alla ragione e alla critica. E la gioventù italiana, mentre si faceva uccidere per questa Patria astratta, malediceva la brutalità e il materialismo delle masse, dei contadini in particolare, che mai si son mostrati disposti al sacrificio per la grandezza e per l’indipendenza di questa Patria politica, dello Stato.
Se la gioventù si fosse data la briga di riflettere avrebbe capito, e forse da lungo tempo, che l’indifferenza ben netta delle masse popolari pel destino dello Stato italiano non solo non è un disonore per esse, ma prova, al contrario, d’una intelligenza istintiva che fa comprendere come questo Stato unitario e centralizzato sia, per sua natura, a loro estraneo, ostile, e proficuo solo, per le classi privilegiate di cui garantisce, a lor danno, il dominio e la ricchezza. La prosperità dello Stato è la miseria della nazione reale, del popolo; la grandezza e la potenza dello Stato è la schiavitù del popolo. Il popolo è il nemico naturale e legittimo dello Stato; e sebbene si sottometta - troppo sovente, ahimè - alle autorità, ogni forma di autorità gli è odiosa.
Lo Stato non è la Patria; è l’astrazione, la finzione metafisica, mistica, politica, giuridica della Patria; ma si tratta di un amore naturale, reale; il patriottismo del popolo non è un’idea, ma un fatto; e il patriottismo politico, l’amore dello Stato, non è la giusta espressione di questo fatto, ma un’espressione snaturata per mezzo d’una menzognera astrazione, sempre a profitto di una minoranza che sfrutta. La Patria, la nazionalità, come l’individualità è un fatto naturale e sociale, fisiologico e storico al tempo stesso; non è un principio. Non si può definire principio umano che quello che è universale, comune a tutti gli uomini; ma la nazionalità li separa: non è, dunque, un principio. Principio è, invece, il rispetto che ognuno deve avere pei fatti naturali, reali o sociali. E la nazionalità, come l’individualità, è uno di questi fatti. Dobbiamo, dunque rispettarla. Violarla è un misfatto e , per parlare il linguaggio di Mazzini, diviene un sacro principio ogni volta che è minacciata e violata. Ed è per questo ch’io mi sento sempre e francamente il patriota di tutte le patrie oppresse. La Patria rappresenta il diritto incontestabile e sacro di tutti gli uomini, associazioni, comuni, regioni, nazioni, di vivere, pensare, volere, agire a loro modo e questo modo è sempre il risultato incontestabile di un lungo sviluppo storico.
Patria e nazionalità
Lo Stato non è la Patria; è l’astrazione, la finzione metafisica, mistica, politica, giuridica della Patria;ma si tratta di un’amore naturale, reale; il patriottismo del popolo non è un’idea, ma un fatto; e il patriottismo politico, l’amore dello Stato, non è la giusta espressione di questo fatto, ma un’espressione snaturata per mezzo d’una menzognera astrazione, sempre a profitto di una minoranza che sfrutta. La Patria, la nazionalità, come l’individualità è un fatto naturale e sociale, fisiologico e storico al tempo stesso; non è un principio. Non si può definire principio umano che quello che è universale, comune a tutti gli uomini; ma la nazionalità li separa: non è, dunque, un principio. Principo è, invece, il rispetto che ognuno deve avere pei fatti naturali, reali o sociali. E la nazionalità, come l’individualità, è uno di questi fatti. Dobbiamo, dunque rispettarla. Violarla è un misfatto e, per parlare il linguaggio di Mazzini, diviene un sacro principio ogni volta che è minacciata e violata. Ed è per questo ch’io mi sento sempre e francamente il patriota di tutte le patrie oppresse.
L’essenza della nazionalità. La Patria rappresenta il diritto incontestabile e sacro di tutti gli uomini, associazioni, comuni, regioni, nazioni, di vivere, pensare, volere, agire a loro modo e questo modo è sempre il risultato incontestabile di un lungo sviluppo storico. Pertanto, noi ci inchiniamo innanzi alla tradizione e alla storia; o meglio la rispettiamo, e non perché ci si presenta come astrazione elevata a metafisica, giuridicamente e politicamente per intellettuali e professori del passato, bensì perché essa ha incorporato di fatto la carne e il sangue, i pensieri reali e le volontà delle popolazioni. Se si parla di una certa regione - il canton Ticino (in Svizzera) per esempio - essa apparterrebbe evidentemente alla famiglia italiana: la sua lingua, i suoi costumi e le sue particolarità sono identiche a quelli della popolazione della Lombardia e, di conseguenza, dovrebbe passare a far parte dello Stato Italiano unificato.
Crediamo che si tratta di una conclusione radicalmente falsa. Se esistesse realmente una sostanziale identità tra il canton Ticino e la Lombardia, non ci sarebbe dubbio alcuno che il Ticino si unirebbe spontaneamente alla Lombardia. Ma non è così, e se non si sente il grande desiderio di farlo, ciò dimostra semplicemente che la Storia reale - quella in vigore generazione dopo generazione nella vita reale del popolo del canton Ticino, è la dimostrazione della sua contrarietà all’unione con la Lombardia - è cosa completamente distinta dalla storia iscritta nei libri.
D’altra parte, bisogna dire che la storia reale degli individui e dei popoli non solo procede verso uno sviluppo positivo, bensì molto spesso verso la negazione del suo passato e per la ribellione contro di esso; e questo è il diritto della esistenza, l’inalienabile diritto di questa generazione, la garanzia della sua libertà.
La nazionalità e la solidarietà universale. Non c’è niente di più assurdo e al tempo stesso più dannoso e mortifero per il popolo che erigere il principio fittizio della nazionalità come ideale di tutte le aspirazioni popolari. La nazionalità non è un principio umano universale. E’ un fatto storico e locale che, come tutti i fatti reali e innocui, ha diritto ad esigere la sua generale accettazione. Ogni popolo fino alla più piccola unità etnica o tradizionale possiede le proprie caratteristiche, il suo specifico modo di esistenza, la sua maniera di parlare, di sentire, di pensare, e di agire; e questa idiosincrasia costituisce l’essenza della nazionalità, risultato di tutta la vita storica e sommatoria totale delle condizioni vitali di questo popolo.
Ogni popolo, come ogni persona è quello che è, e per questo ha un diritto ad essere se stesso. In questo consistono quelli chiamati diritti nazionali. Però se un popolo e una persona esistono di fatto in una determinata forma, non ne consegue che l’uno e l’altro abbiano il diritto ad elevare la nazionalità in un caso e l’individualità nell’altro, come principi specifici, e nemmeno si debba passare la vita discutendo sopra la questione. Al contrario, quanto meno pensano a se stessi e più acquisiscono valori umani universali, più si rivitalizzano e più si caricano di sentimento, tanto la nazionalità quanto l’individualità. La responsabilità storica di tutta la nazione. La dignità di tutta la nazione, come dell’individuo, deve consistere fondamentalmente nel fatto che ognuno accetta la piena responsabilità delle sue azioni, senza cercare di colpevolizzare altri. Non sono molto stupide le lamentele lacrimose di un fanciullo che protesta perchè qualcuno lo ha corrotto e condotto nella cattiva strada? E quello che è improprio nel caso di un ragazzo lo è certamente anche nel caso di una nazione, cui lo stesso sentimento di autostima dovrebbe impedire qualunque intento di imputare ad altri la colpa dei propri errori.
Patriottismo e giustizia universale. Ognuno di noi dovrebbe elevarsi sopra questo patriottismo piccolo e meschino, per il quale, il proprio paese è il centro del mondo, e che considera grande una nazione quando è temuta dai suoi vicini. Dobbiamo porre la giustizia umana universale sopra tutti gli interessi nazionali e abbandonare una volta per tutte il falso principio della nazionalità, inventato recentemente dai despoti della Francia, Prussica e Russia per schiacciare il supremo principio della libertà. La nazionalità non è un principio, è un diritto legittimo come l’individualità. Ogni nazione, grande o piccola ha l’indiscutibile e medesimo diritto ad esistere, a vivere in accordo con la propria natura. Questo diritto è semplicemente il corollario del principio generale della libertà. Tutti quelli che desiderano sinceramente la pace e la giustizia internazionale devono rinunciare una volta per sempre a quello che si chiama la gloria, il potere la grandezza della Patria, a tutti gli interessi egoisti e vani del patriottismo.
Sulla scuola
I preti di tutte le chiese, lungi dal sacrificarsi al gregge confidato alle loro cure, lo hanno sempre sacrificato, sfruttato e mantenuto al livello di mandria, in parte per soddisfare le loro passioni personali, ed in parte per servire l’onnipotenza della Chiesa. Le stesse condizioni, le stesse cause producono sempre gli stessi effetti. Lo stesso accadrà dunque per i professori della Scuola moderna, divinamente ispirati e patentati dallo Stato. Diverranno necessariamente, alcuni senza saperlo, altri con piena conoscenza di causa, gli insegnanti della dottrina del sacrificio popolare alla potenza dello Stato e a profitto delle classi privilegiate. Occorrerà dunque eliminare dalla società ogni insegnamento ed abolire tutte le scuole? Tutt’altro. E’ necessario anzi diffondere a piene mani l’istruzione nelle masse, e trasformare tutte le chiese, tutti questi templi dedicati alla gloria di Dio e all’asservimento degli uomini, in altrettante scuole d’emancipazione umana. Ma, anzitutto, intendiamoci: le scuole propriamente dette, in una società normale, fondata sulla uguaglianza e sul rispetto della libertà umana, dovranno esistere solo per i fanciulli e non già per gli adulti, e, perché esse diventino scuole di emancipazione non di servitù, bisognerà eliminare, prima di tutto, questa finzione di Dio, l’oppressore eterno e assoluto; e bisognerà fondare tutta l’educazione dei fanciulli e la loro istruzione sullo sviluppo scientifico della ragione, non su quello della fede; sullo sviluppo della dignità e dell’indipendenza personale, non su quello della pietà e dell’obbedienza; sul culto della verità e della giustizia, e prima di tutto sul rispetto umano, che deve sostituire in tutto e ovunque il culto divino. Il principio dell’autorità, nell’educazione dei fanciulli, costituisce il punto di partenza naturale; esso è legittimo, necessario, allorché è applicato ai fanciulli in tenera età, allorché la loro intelligenza non è ancora in alcun modo sviluppata; ma appena lo sviluppo di ogni cosa, e per conseguenza anche dell’educazione, comporta la negazione successiva dei punti di partenza, questo principio deve ridursi gradualmente a misura che avanzano l’educazione el’istruzione, per far posto alla libertà che ascende. Qualsiasi educazione razionale non è in fondo che la eliminazione progressiva dell’autorità a profitto della libertà giacché lo scopo finale dell’educazione dev’essere quello di formare degli uomini liberi e pieni di rispetto e d’amore per la libertà altrui. Così il primo giorno della vita di scuola, se la scuola prende i fanciulli di tenera età, quando essi cominciano appena a balbettare qualche parola, deve essere il giorno dell’autorità più severa e dell’assenza quasi completa della libertà; ma il suo ultimo giorno deve essere quello della più grande libertà e dell’abolizione assoluta di ogni traccia del principio animale o divino dell’autorità. Il principio d’autorità, applicato agli uomini che hanno sorpassato o raggiunto la maggiore età, diventa una mostruosità, una negazione intellettuale e morale. Sventuratamente, i governi paternalistici hanno lasciato marcire le masse popolari in una così profonda ignoranza, che sarà necessario fondare delle scuole non solamente per i figli del popolo, ma per il popolo stesso. Da queste scuole dovranno essere assolutamente bandite le più piccole applicazioni o manifestazioni del principio di autorità. Non saranno più scuole, saranno accademie popolari in cui non ci sarà più questione né di scolari, né di maestri, dove il popolo verrà liberamente a prendere, se lo trova necessario, un insegnamento libero, e nelle quali, ricco della sua esperienza, potrà insegnare, a sua volta, molte cose ai professori che gli apportano cognizioni che egli non ha. Questo sarà dunque un insegnamento scambievole, un atto di fraternità intellettuale tra la gioventù istruita e il popolo.
Michele Bakunin

mercoledì 26 settembre 2012

Spagna: Assedio al parlamento

aggiornamento 26 settembre:

La giornata di ieri si è conclusa verso l'una di notte, quando la polizia ha sgomberato con la forza gli ultimi manifestanti rimasti in plaza Neptuno.

Dalla lunga giornata di mobilitazione di ieri è stato lanciato un nuovo appello per oggi:
 l'appello è a ritrovarsi alle 19 per tornare ad assediare il Parlamento.
h23.30:

Nonostante la lunga giornata di assedio, le cariche e i proiettili di gomma della polizia, sono ancora migliaia le persone che manifestano, tuttora radunate in plaza Neptuno.

Le notizie più recenti riferiscono di 28 arrestati e diverse decine di feriti ma i numeri sono in continuo aumento per le frequenti cariche della polizia che per tutto il giorno ha affrontato con difficoltà e nervosismo il grandissimo numero e la determinazione delle persone scese in piazza.

Nel frattempo in tutto il paese stanno circolando gli appelli per riunirsi in grandi assemblee domani mattina e nei prossimi giorni, per dare continuità alla straordinaria mobilitazione messa in campo nella giornata di oggi.

h 21.00:
Dopo numerose cariche che si sono susseguite, in piazza Neptuno rimangono decine di migliaia di manifestanti di fronte a uno schieramento della polizia. Diverse cariche continuano a prodursi a distanza di poco tempo. Numerosi risultano i feriti e gli arrestati. La piazza è ancora decisa a rimanere unita e decisa a non andare via, mentre i boati si fanno sempre più alti. L'ambiente continua a surriscaldarsi e la rabbia cresce.

h 19.15:
Le cariche sono partite in questo momento, mentre alcuni dei manifestanti cercavano di abbattere le recinzioni. La polizia aggredisce un manifestante che stava in prima fila nella manifestazione. Tensioni e cariche della polizia continuano nella zona di Neptuno.


h 19.00:
Mentre gli elicotteri sorvolano la zona e i poliziotti indossano i caschi, migliaia di persone continuano a dirigersi verso il Parlamento. Per il momento sono in circa 20mila che stanno partecipando all'assedio. Le persone si stanno posizionando intorno all'edificio.

h 18.30:
Un uomo di mezza età con una bandiera del sindacato andaluso dei lavoratori (SAT) è stato arrestato dalla polizia dopo essere salito sulla recinzione di protezione che circonda il Parlamento. A Sevilla nel frattempo, circa 3mila persone -convocate dal sindacato SAT- si sono radunate sotto il parlamento andaluso, scandendo cori al grido "O ci lasciano entrare o entriamo con la forza!". Nel frattempo circa 10mila persone continuano a raggiungere lentamente il Parlamento di Madrid.

Già dalle prime ore del mattino lo stato di allerta intorno al Parlamento spagnolo si è acceso. Un ingente schieramento di forze dell'ordine formato da si è posizionato nell'area antistante. La fotografia è chiara, il Palacio de Congresos risulta completamente blindato da 1400 poliziotti in tenuta antisommossa, da mezzi e da transenne.
C'è chi tra i politici - terrorizzati all'idea della mobilitazione convocata da giorni dalla piattaforma "en pie!" (in piedi!) e dal gruppo Azione di coordinamento per il 25S- rilasciava dichiarazioni su un tentativo di colpo di stato o paragoni simili. Sintomo di come il governo di Rajoy sia cosciente di giocare una partita non così facile, attanagliato dalla crisi e dalla popolazione ormai impaziente di subire la politica d'austerità dettata dall'emergenza.

Da vari punti della penisola iberica e da alcuni paesi d'Europa, migliaia di persone hanno raggiunto Madrid con autobus e macchine per partecipare all'appuntamento tanto atteso del 25S, molti sono stati i pullman fermati durante il tragitto, e non potevano certo mancare le identificazioni e le perquisizioni di quanti, dentro quei pullman, si recavano al concentramento. "Circondiamo il Parlamento fino a quando non si dimettono!". Con queste parole d'ordine si è dato il via alla giornata che ha previsto varie iniziative al suo interno tra cui un pranzo popolare, essemblee e azioni di vario tipo. Uno striscione con su scritto "Que se vayan todos" apre il corteo appena partito e che si sta dirigendo verso il parlamento. Molti i giornalisti che sono stati identificati prima che iniziasse il corteo. La tensione è alta per la quantità di poliziotti presenti nelle strade, tuttavia in migliaia in questo momento stanno marciando scandendo slogan di vario tipo, mentre un gruppo di manifestanti si trova già nei pressi del Parlamento.

da: infoaut.org

M. Bakunin, La libertà degli uguali

Bakunin (1814-1876) è una delle più grandi figure di rivoluzionario ottocentesco. Agitatore, organizzatore infaticabile e acuto polemista, partecipò a innumerevoli insurrezioni, rivolte e complotti in tutta Europa. Fu uno dei principali protagonisti della Prima Internazionale e antagonista di Marx, alla cui visione autoritaria e verticista contrappose il suo originale socialismo libertario.
Nel decennio 1866-1876 scrisse alcuni testi decisivi per la formazione del pensiero anarchico. Questa scelta antologica, operata nella sua vastissima produzione, presenta – articolati per sezioni tematiche – gli scritti più significativi del pensiero bakuniniano maturo.
Come la sua brillante critica del mito della scienza, fatta in pieno culto positivistico; come la sua articolata proposta per un'educazione egualitaria e integrale; come le sue straordinarie anticipazioni sull'avvento di una inedita classe di nuovi padroni – gli emergenti ceti tecno-burocratici – impliciti negli sviluppi del capitalismo e nella tesi marxista della «dittatura del proletariato».
Una selezione che ci restituisce la ricchezza e attualità delle riflessioni bakuniniane, proponendo alcune pietre miliari del pensiero anarchico classico come il Catechismo rivoluzionario, Il programma della Fratellanza internazionale, L'istruzione integrale e brani essenziali di Dio e lo Stato e Stato e anarchia.

Io sono un amante fanatico della libertà
M. Bakunin

Io intendo quella libertà per cui ciascuno, anziché sentirsi limitato dalla libertà degli altri, vi trova al contrario la sua conferma e la sua estensione all'infinito
M. Bakunin


Indice:
- Introduzione
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- Lo Stato
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martedì 25 settembre 2012

Cronache dalla lotta di classe: Alcoa e Ilva (25/9)


Brevi dalla lotta di classe in Italia:
 
25 settembre
 
Circa 500 lavoratori dell'Ilva, dopo giorni di assemblea permanente, hanno occupato parte della fabbrica richiedendo la non interruzione della produzione. In Sardegna, 200 lavoratori dell'Alcoa si sono scontrati con gli agenti di polizia e carabinieri durante un presidio alle sedi istituzionali.
Buona giornata.

lunedì 24 settembre 2012

26/9: giornata di lotta europea.

NON VOGLIAMO PAGARE LA CRISI DI UN SISTEMA
C  H  E        N  O  N        E'        I  L        N  O  S  T  R  O     !


La crisi del sistema capitalista si espande in tutti i paesi. Ovunque i governi e il padronato prendono a pretesto questa situazione per sfruttare ulteriormente i lavoratori. Ma sono sicuramente loro i responsabili di questo stato di cose e della crisi del loro sistema economico e politico capitalistico.
Vorrebbero farci credere che tutte le misure eccezionali di adeguamento di tagli, di austerità sono necessari per mantenere il sistema, quando l'unica cosa che vogliono è continuare ad arricchirsi a spese delle persone che vivono del loro lavoro. Tutti gli attacchi che abbiamo subito in tutti i paesi europei hanno lo stesso schema:




- Distruzione dei servizi pubblici
- Riforma de lle leggi sul mercato del lavoro che lasciano tutto il potere nelle mani dei padroni

- Eliminazione dei diritti fondamentali, sociali e sindacali, raggiunti dopo molti anni di lotta
- Aumento della precarietà e della disoccupazione
- Attacchi contro il diritto alla pensione e alla salute
- Attacco alla scuola e all'università

Tutte le direttive del FMI, della Banca Mondiale, della BCE, .. cercano solo di salvaguardare gli interessi dei più potenti. Il sindacalismo tradizionale sta lasciando un altra volta soli i lavoratori. In queste condizioni non si possono firmare accordi e accettare i dictat imposti dagli organismi internazionali.
Per noi, il ruolo del sindacalismo è quello di difendere i lavoratori e di costruire una società più giusta; questo compito passa per una netta opposizione ai piani di austerità , ne è più possibile per noi usare modelli concertativi.
Si rende necessaria una forte mobilitazione con scioperi e manifestazioni a livello europeo.
Per il movimento operaio, la priorità deve essere posta nella costruzione di una mobilitazione europea, e non nella negoziazione con i padroni. Non si possono accettare accordi o patti che applicano i piani di austerità e di tagli decisi dalla Banca Mondiale e dal Fondo Monetario Internazionale.
Costruiamo insieme un movimento sindacale europeo alternativo e una grande mobilizzazione sociale per il 26 settembre.
a firma della RETE EUROPEA DEL SINDACALISMO DI BASE E ALTERNATIVO
dall'appello della CGT SPAGNOLA in appoggio allo sciopero generale dei paesi baschi che viene diffuso da USI Confederazione di sindacati nazionali e di federazioni locali sito: www.usiait.it ewww.unionesindacaleitaliana.blogspot.com
Sede nazionale: ROMA LARGO VERATTI 25 tel. 06/70451981 fax 06/77201444

Errico Malatesta, Opere Complete (1899-1900)

VERSO L'ANARCHIA
Malatesta in America (1899-1900)
A cura di Davide Turcato. Saggio introduttivo di Nunzio Pernicone
pp. 232 EUR 18,00
Relegato a domicilio coatto dopo i moti del pane del 1898, nell'aprile 1899 Malatesta evade. Dopo una breve permanenza a Londra, intraprende in agosto un soggiorno di otto mesi negli Stati Uniti, dove assume la direzione della Questione Sociale di Paterson, voce superstite dell'anarchismo italiano nel mondo. La lezione dell'esperienza induce Malatesta a operare in questo periodo una radicale svolta tattica, propugnando un'alleanza tra i partiti rivoluzionari per un'insurrezione che rovesci la monarchia sabauda, "l'ostacolo che impedisce qualsiasi progresso". Al tempo stesso egli chiarisce che "non si tratta di fare l'anarchia oggi, o domani o tra dieci secoli; ma di camminare verso l'anarchia oggi, domani e sempre". Coniugando coerenza teorica e pragmatismo, Malatesta getta così le basi feconde di una originale visione gradualista dell'anarchismo. Dalle colonne della Questione Sociale egli affronta inoltre una quantità di altri temi: il programma anarchico, l'organizzazione, l'involuzione borghese del socialismo, la libertà come metodo, il problema dell'amore, il diritto di giudicare. Attraverso articoli
sulla realtà americana, interviste e resoconti inediti di conferenze in francese e spagnolo, fra cui quelle tenute a Cuba nel marzo 1900, questo volume testimonia infine la dimensione transnazionale dell'attività di Malatesta, la sua ampiezza di vedute e di esperienze, e il suo ruolo di spicco nei
movimenti operai e anarchici sull'una e l'altra sponda dell'oceano Atlantico.
(coedizione ZIC - La Fiaccola)

Errico Malatesta, Opere Complete (1897-1898)

UN LAVORO LUNGO E PAZIENTE...A cura di Davide Turcato. Saggio introduttivo di Roberto Giulianelli
pp. 392 EUR 25,00
ISBN 978-88-95950-16-7
Con questo volume inizia l'edizione delle Opere Complete di Errico Malatesta, senza dubbio, l'esponente più significativo del movimento anarchico di lingua italiana.
Le Opere complete, previste in dieci volumi, raccoglieranno la sua intera produzione, dagli articoli di giornale, agli interventi in conferenze e comizi, alla corrispondenza, agli opuscoli ed è prevista la loro uscita a cadenza annuale.
Il primo volume è dedicato alla raccolta degli scritti pubblicati su l'Agitazione di Ancona nel periodo cruciale del 1897-1898.
(coedizione ZIC - La Fiaccola

Pietro Gori, Il vostro ordine e il nostro disordine (1896)


Tutti, voi l'avrete sentita e letta le mille volte questa calunnia, incosciente spesso ma spesso anche cosciente, con cui l'ideale dell'anarchia viene aggredito da’ suoi nemici, e da quanti o ne temono per i propri privilegi l' azione guaritrice o son così piccini di cuore e di cervello da non saperne afferrare l'intimo senso, pur così semplice da esser compreso dallo scienziato e dall'analfabeta, a condizione che nel primo la scienza sia avida di sapere e nel secondo l'ignoranza sia veste di cui anela spogliarsi, e che nell'uno e nell'altro desiderio della verità sia accompagnato dalla sete insaziabile di giustizia, di amore, di benessere, di pace e di libertà per tutti.
Questa calunnia, che i dizionari hanno sanzionata, è che anarchia significhi disordine. Fin da quando, nei più remoti templi della civiltà ellenica, le libere città della Grecia furono spogliate del loro diritto e i tiranni misero il pesante piede su Sparta ed Atene, la parola anarchia fu adoperata in senso di scherno e di vituperio per indicare i momenti di interregno, fra la morte di una despota e la nomina o l' assunzione al trono del suo successore, momenti che l'abitudine della schiavitù faceva forse sembrare di confusione, come se tirannide fosse sinonimo di ordine, come se l'ordine mantenuto dalla frusta fosse preferibile al disordine naturale che nei primi istanti suol seguire la caduta d'una tirannide!
Fautori di disordine, si dice a quanti fanno professione di fede rivoluzionaria. Ma, di grazia, ordine è forse questo che non reggerebbe neppure un giorno se non fosse sostenuto dalla violenza, questo che i governi difendono con tanta brutalità di mezzi polizieschi e militareschi? È ordine forse la società in cui viviamo, nella quale il benessere, anzi l'orgia dell'esistenza è permessa soltanto a pochi privilegiati che non lavorano e che quindi nulla producono, mentre la moltitudine dei lavoratori, condannati alla fatica ed agli stenti, poco o nulla possono godere di tante ricchezze soltanto da essi create? Se ordine fosse, perché la forza delle armi, delle manette, della prepotenza governativa in una parola per mantenerlo?
L’ordine ammirabile della natura ha egli bisogno di altre leggi, all'infuori di quelle rigide ed inviolabili da cui dipende tutta l'esistenza delle cose, e lo sviluppo dei fatti e dei fenomeni? No! Perché questo è l'ordine vero; e le sue leggi sono ubbidite dappertutto senza bisogno di gendarmi, poiché se qualcuno si mette contro di loro trova nella sua disobbedienza il castigo meritato. Provate a ribellarvi alla legge di gravità, ad agire come se essa non fosse; lanciatevi nel vuoto senza altro sostegno e la caduta sarà inevitabile. Appunto per ciò nessuno pensa, all'infuori dei pazzi, di agire in contrasto con le leggi di natura, quelle che veramente sono tali e non, si capisce, le altre che per tali ci vuol gabellare, e non sono, la morale artificiale delle superstizioni religiose.
Qual governante, per esempio, all'infuori e al di sopra delle evoluzioni fatali della forza e della materia, oserebbe e saprebbe mandar poliziotti o far sentire in qualsiasi modo la sua autorità estranea per regolare il roteare dei mondi negli spazi, o il succedersi irrevocabile delle stagioni e degli eventi?
La realtà è invece che i governi esistono oggi, col pretesto di garantire l'ordine, perché questo non è l'ordine vero. Se fosse veramente ordine, ripeto, non avrebbe bisogno di armi e di manette, della violenza autoritaria dell'uomo sull'uomo per reggersi! Tutto all'opposto di ciò che credono i più, l'ordine difeso contro di noi, iconoclasti impenitenti, con tanta profusione di leggi restrittive della libertà e di gendarmi, è il caos legalizzato, la confusione regolamentata, la iniquità codificata, il disordine economico, politico, intellettuale e morale eretto a sistema.
Si dice che le leggi ed i governanti che le eseguiscono, son là a mantenere l'ordine nell'interesse dei deboli contro i forti. Ma chi è che ci crede sul serio? Chi è che non vede che dappertutto avviene tutto il contrario? Ditemi, per esempio, in quale sciopero, in quale conflitto fra capitale e lavoro, le forze del governo hanno seriamente difeso gli operai, che sono i più deboli, contro i loro padroni che sono i più forti? Non solo non l'hanno fatto mai, ma, a sentire ciò che i governanti dicono, essi stan lì, neutrali, a sorvegliare che né gli uni né gli altri escano con la violenza dai limiti della contesa pacifica e civile; come se fosse buona ed onesta neutralità assistere alla lotta di un fanciullo debole e disarmato con un uomo robusto, e impedire che altri corra in aiuto del primo o che il ragazzo adoperi altre armi che non quelle dei suoi poveri muscoli infantili. E ciò nella ipotesi più favorevole e meno corrispondente al vero; giacché, malgrado la loro vantata neutralità nelle lotte fra capitale e lavoro, sempre i governanti intervengono fraudolentemente o apertamente in aiuto del primo contro il secondo, del forte contro il debole.

* * *
 

Lo Stato, il potere esecutivo, quello giudiziario, l'amministrativo, e tutte le ruote grandi e piccole di questo mastodontico meccanismo autoritario, che le anime deboli credono indispensabile, non fanno che comprimere, soffocare, schiacciare ogni libera iniziativa, ogni spontaneo aggruppamento di forze e di volontà, impedire insomma l'ordine naturale che risulterebbe dal libero giuoco delle energie sociali, per mantenere l'ordine artificiale disordine in sostanza della gerarchia autoritaria assoggettata al loro continuo e vigile controllo. Ben definisce lo Stato Giovanni Bovio:
«...oppressura dentro e guerra fuori. Sotto specie di essere l'organo della sicurezza pubblica è, per necessità, spogliatore e violento; e col pretesto di custodire la pace tra' cittadini e tra le parti, è provocatore di guerre vicine e lontane. Chiama bontà l'obbedienza, ordine il silenzio, espansione l'eccidio, civiltà la simulazione. Esso è, come le Chiese, figlio della comune ignoranza e della debolezza de' più. Agli uomini adulti si manifesta qual è: il nemico maggiore dell'uomo dalla nascita alla morte. Qualunque danno possa agli uomini derivare dall'anarchia, sarà sempre minore del peso dello Stato sul collo».
I governanti fanno credere, e il pregiudizio è antico, che il governo sia strumento di civiltà e di progresso per un popolo. Ma, per chi bene osservi, la verità invece è che tutto il movimento in avanti dell'umanità è dovuto allo sforzo dei singoli individui, della iniziativa anonima delle folle, dell'azione diretta del popolo. Il mondo ha camminato sempre fin qui non con l'aiuto dei governi, ma loro malgrado, e trovando in essi l'ostacolo continuo diretto ed indiretto al suo fatale andare. Quante volte i più gloriosi rinnovatori nella scienza, nell'arte, nella politica non si trovarono sbarrato il cammino, oltre che dai pregiudizi e dall'ignoranza delle masse, anche e soprattutto dai bavagli e dalle persecuzioni governative?
Quando il potere legislativo ed il governo accettano e soddisfano sotto forma di legge o di decreto qualche nuova domanda sorta dalla coscienza pubblica, ciò è sempre in seguito a reclami innumerevoli, ad agitazioni straordinarie, a sacrifici non indifferenti del popolo. E quando i governanti si sono decisi a dire di sì, a riconoscere un diritto nei loro sudditi, e mutilato ed irriconoscibile, lo promulgano nelle carte, nei codici, quasi sempre quel diritto è già sorpassato, l'idea è già vecchia, il bisogno pubblico di quella tal cosa non è più sentito; e la nuova legge serve allora a reprimere altri bisogni più urgenti che si affacciano, che devono attendere di essere sterilizzati, ipertrofici, prima di essere riconosciuti da una legge successiva. Chi ha studiato e osservato con passione i parti curiosi e bizzarri del genio legislativo, le leggi passate e le presenti, resta sorpreso dalla frode sottile che riesce a gabellare per diritto il privilegio, per ordine il brigantaggio collettivo, per eroismo il fratricidio della guerra, per ragione di stato la conculcazione dei diritti e degli interessi popolari, per protezione degli onesti la vendetta giudiziaria contro i delinquenti che, come dice il Quetelet, non sono che gli strumenti e le vittime nel tempo stesso delle mostruosità sociali. Ora, noi che tutti questi mali, causa ed effetto insieme di tanta infamia e di tanti dolori, vogliamo combattere per abbattere tutto ciò che ostacola il trionfo della giustizia, noi siamo chiamati fautori del disordine.
Certo, proprietà, stato, famiglia, religione sono istituzioni di cui alcune meritano il piccone demolitore, altre aspettano il soffio purificatore che le faccia rivivere sotto altra forma più logica ed umana. Ma ciò potrà dirsi sul serio passaggio dall'ordine al disordine? E chi non desidererebbe allora, se si desse un così contrario significato alle parole, il trionfo del disordine? Ma se le parole conservano il loro significato, non gli anarchici possono essere chiamati amici del disordine; e ciò neppure se lo si vuol considerare dal solo punto di vista di rivoluzionari. In questo periodo storico di sfacimento e di transizione, fra una società che muore ed una che nasce, gli odierni rivoluzionari sono veri elementi di ordine. Essi hanno negli occhi fosforescenti la visione delle idealità sublimi che fanno palpitare il cuore dell'umanità, che l'avviano sull'infinito ascendente cammino della storia.
Dopo il rombo del tuono, torna sul capo degli uomini il bel cielo luminoso e sereno; dopo la vasta tempesta che purifichi l'aere pestifero, questi militi dell'avvenire sognano le primavere fulgenti della famiglia umana, soddisfatta nella uguaglianza, e ingentilita dalla solidarietà e dalla pace dei cuori.

P. Mattick, Socialismo del capitale e autonomia operaia

 
dall'Archvio "P. Mattick"
Dalla critica fin qui condotta si può facilmente dedurre che la futura attività della classe operaia non si potrà chiamare un «nuovo inizio», ma semplicemente un inizio.

Il secolo di lotta di classe testè trascorso ha permesso l'acquisizione di conoscenze dal valore teoretico inestimabile; ha avuto nobili parole rivoluzionarie contro un capitalismo che pure si proclamava il sistema sociale finale e ha messo in dubbio la convinzione operaia che la situazione di miseria dei lavoratori fosse senza speranza. Ma la sua lotta concreta è rimasta all'interno dei confini capitalistici: è stata, infatti, un'azione che mirava, attraverso la mediazione dei dirigenti, solamente a sostituire dei padroni malleabili a quelli troppo duri A.Pannekoek

La storia passata del movimento operaio deve essere considerata solo come un preludio all'azione futura. E benché questo preludio abbia già anticipato senza dubbio alcuni aspetti della lotta da venire, è rimasto solo un'anticipazione, appunto, e non un riassunto di quello che seguirà.

Il movimento operaio europeo è scomparso cosi facilmente, perché la sua organizzazione non aveva una prospettiva avanzata; i suoi membri sapevano o intuivano che non c'era spazio per loro in un sistema socialista e la loro paura che la società di classe cessasse di esistere era identica a quella degli altri gruppi privilegiati. Capaci di funzionare solo nelle condizioni della società capitalistica, essi vedevano sfavorevolmente la fine del capitali-smo; scegliere fra due modi di morire non ha mai rallegrato nessuno. Il fatto che tali organizzazioni abbiano un senso solo nel capitalismo, spiega anche la loro curiosissima concezione della società socialista. Il loro «socialismo» era ed è un «socialismo» assai somigliante al capitalismo; più che socialisti, essi sono dei capitalisti «progressivi ». Tutte le loro teorie, da quella del revisionista «marxiano» Bernstein a quelle del «socialismo di mer-cato» in voga oggi, non sono altro che metodi per realizzare un migliore adattamento al capitalismo. Non c'è perciò da stupirsi se un sistema di chiaro capitalismo di Stato quale quello esistente in Russia è generalmente considerato da essi come un sistema di socialismo realizzato o di transizione al socialismo. Le critiche contro il sistema russo concernono, infatti, solo la mancanza di democrazia, oppure la cosiddetta malizia o stupidità della sua burocrazia, e non sfiorano neppure la questione che i rapporti di produzione attualmente esistenti in Russia non sono sostanzialmente diversi da quelli degli altri paesi capitalistici, o il fatto che gli operai russi non hanno nessuna voce in capitolo riguardo agli affari economici e produttivi del loro paese e sono soggetti politicamente ed economicamente a condizioni di sfruttamento come gli operai di ogni altra nazione.

Benché la maggior parte degli operai russi non si trovino più a fronteggiare, nella loro lotta per l'esistenza e per migliori condizioni di vita, imprenditori privati, la loro attuale condizione di soggezione dimostra che non è stata realizzata nemmeno la vecchia aspirazione del movimento operaio alla sostituzione dei padroni cattivi con altri più benevoli.

La situazione russa dimostra anche che la scomparsa del capitalista privato non mette fine, da sola, alla forma capitali-stica di sfruttamento che, in sostanza, continua a sussistere anche quando il capitalista privato è stato trasformato o sostituito da rappresentanti della Stato. In Russia continuano a sussistere la separazione degli operai dai mezzi di produzione e, con essa, il dominio di classe. Con l'aggiunta di un apparato di sfruttamento altamente centralizzato e senza divergenze all'interno della dire-zione generale; il che rende molto più difficile la lotta degli operai per i loro obiettivi. La Russia si rivela, cosi, nient' altro che il modello di uno sviluppo capitalistico diverso ed espresso con una terminologia nuova. I tentativi fatti per estendere l'auto-sufficienza nazionale russa e imposta con la violenza come in tutti gli altri paesi capitalistici, vengono oggi celebrati come tante tappe della «costruzione del socialismo in un solo paese». L'ottimismo del movimento operaio, però, sembra crescere dopo ogni sconfitta subita. Quanto più si approfondisce infatti la differenziazione di classe in Russia, quanto più la classe dirigente riesce, sopprimendo l'opposizione, a rendere più duro il suo sistema di sfruttamento; quanto più la Russia partecipa alla concorrenza economica mondiale capitalistica come una potenza imperialistica uguale alle altre; tanto più si ritiene che il socialismo sia stato, in quel paese, pienamente realizzato. Allo stesso modo che il movimento operaio era stato capace di considerare la marcia dell'accumulazione capitalistica una tendenza verso il socialismo, cosi oggi esso celebra questo avanzamento progressivo verso la barbarie come costruzione graduale della nuova società!

Per quanto diviso da molti disaccordi interni su varie questioni, il vecchio movimento ha, riguardo al socialismo, una compatta concezione unitaria. L'astratto «Cartello generale» di Hilferding, l'ammirazione di Lenin per il socialismo di guerra e per il servizio postale tedesco, l'eternizzazione operata da Kautsky dell'economia del valore-prezzo-denaro (mirante a rendere co-sciente ciò che nel capitalismo viene compiuto ciecamente dalle leggi automatiche del mercato), il comunismo di guerra di Trockij -contemplante alcuni meccanismi di domanda e offerta- e l'economia istituzionale di Stalin: tutte queste concezioni hanno, come base comune, l'accettazione della permanenza del sistema produttivo attuale e non fanno altro che riflettere dei processi attualmente presenti nella società capitalistica. Infatti, un «socialismo» di questo genere viene oggi discusso anche da famosi economisti borghesi come Pigou, Hayek, Robbins, Keynes, per citarne solo alcuni, alle cui pubblicazioni i socialisti attingono i loro materiali teorici. Vari economisti borghesi inoltre da Marshall a Mitchell, dai neo-classici ai moderni istituzionalisti si sono occupati del problema di come portare ordine nel disordine del sistema capitalistico, secondo una direzione che è il corrispettivo teoretico della tendenza, presente sul terreno pratico, all'allargamento dell'intervento dello Stato nella società concorrenziale. Processo questo, che sta alla base dell'afferma-zione del «New Deal », del «Nazional-socialismo» e del «Bolscevismo», i vari nomi che designano i differenti gradi e le specificità del processo di centralizzazione e di concentrazione del sistema capitalistico.

E ormai quasi diventato un luogo comune descrivere le incoerenze del movimento operaio come una drammatica contraddizione tra mezzi e fini. Eppure una tale incoerenza non esiste affatto. Il «socialismo» non è mai stato il « fine» del vecchio movimento operaio ma, piuttosto, un semplice termine di copertura per un obiettivo completamente diverso: la conquista, cioè, del potere politico come strumento per la partecipazione al sur-plus creato in una società basata sulla divisione tra classi dominanti e classi dominate. Questo era il fine che, a sua volta, ha determinato i mezzi.

La questione dei mezzi e dei fini, in realtà, deriva dalla separazione che, in una società divisa in classi, esiste tra realtà e ideologia, ed è quindi artificiosa nella misura in cui non può essere risolta senza l'eliminazione degli attuali rapporti di classe. Non solo: essa è inoltre anche priva di senso, perché esiste solo nella teoria e non nella realtà effettuale. Di fatto, le azioni delle classi e dei gruppi si possono sempre spiegare sulla base dei rapporti di produzione esistenti nella società. E quando le azioni non, corrispondono ai fini proclamati, significa che esse non volevano raggiungere veramente quei fini, i quali invece riflettono o una insoddisfazione incapace di tradursi in azione concreta, o il desiderio di nascondere i fini reali Nessuna realtà di classe, infatti, può agire in maniera sbagliata, in una maniera cioè, che non corrisponda alle forze sociali determinanti, nonostante abbia infinite possibilità di pensare in maniera sbagliata. Nel contesto della produzione sociale capitalistica, ogni classe dipende dall'altra. Il loro antagonismo deriva proprio dalla loro identità d'interessi. Finché questa società esisterà, non ci sarà alcuna possibilità di scelta nell'azione, e solo al di fuori dei suoi confini sarà possibile coordinare coscientemente mezzi e fini e trovare una vera unità tra teoria e pratica.

Nella società capitalistica la contraddizione tra mezzi e fini è solo apparente e, in realtà, serve solo a coprire una pratica concreta non del tutto disarmonica con quello che si propone. Per eliminare l'apparente incoerenza basta scoprire qual è il fine reale che sta dietro a quello ideologico. Per fare un esempio pratico: se uno crede che i sindacati considerano lo sciopero come un mezzo per ridurre i profitti ed innalzare i salari, sarà sorpreso di scoprire che essi, quanto più potenti erano e quanto più necessari si ponevano gli aumenti salariali, tanto più riluttanti si sono mostrati ad usare lo strumento delle sciopero per il raggiungimento dei loro obiettivi, ripiegando, invece, su mezzi meno appropriati ai fini che si proponevano, come, ad esempio, l'arbitrato e le trattative governative. La spiegazione di questa apparente contraddizione si trova nel fatto che l'aumento ad ogni costo del salario non è più un fine dei sindacati; essi non sono più, infatti, quello che erano all'inizio; il loro vero fine è, ora, il mantenimento ad ogni costo del loro apparato organizzativo e per questo obiettivo la tattica da loto usata è un mezzo molto più appropriato. Ma rivelare apertamente il cambiamento della loro natura, significherebbe alienarsi gli operai; cosi il fine mera-mente ideologico diventa un mezzo per il raggiungimento del fine reale: ha, cioè, una funzione puramente strumentale nel contesto di una attività realistica e ben integrata.

Ciononostante, il problema dei mezzi e dei fini è stato molto discusso dal vecchio movimento operaio e questo spiega, in parte, perché il vero carattere di questo movimento sia stato compreso cosi in ritardo e perché siano fiorite tante illusioni circa la possibilità di procedere ad una sua riforma. Il tentativo più importante in questo senso fu fatto quando la rivoluzione russa del 1905 ruppe la «riduttiva quotidianità» del lavoro politico che il vecchio movimento operaio portava allora avanti, ponendo nuovamente sul tappeto la questione del cambiamento reale della società. Ma anche in quella sua posizione di apparente rifiuto radicale della società esistente, il vecchio movimento operaio rivelò, ancora una volta, il suo innato carattere capitalistico. Appena Lenin si applicò, infatti, alla soluzione del problema del potere, ritornò immediatamente nel campo dei rivoluzionari borghesi. E questo non solo per l'arretratezza della Russia, ma anche per tutto lo sviluppo teorico del socialismo occidentale, che non era approdato a niente più che ad un'ulteriore esaltazione del carattere borghese ereditato dalle prime rivoluzioni. La natura capitalistica del movimento operaio era, inoltre, confermata dalla sua teoria economica che, sulla scia della tendenza predominante fra gli economisti borghesi, concepiva sempre più i problemi della società come problemi di distribuzione, cioè di mercato. Persino l'attacco rivoluzionario contro i «revisionisti », che si trova nell'Accumulazione del Capitale di Rosa Luxemburg rimane sul piano stabilito dagli antagonisti. Anche Rosa Luxemburg ritrovava, infatti, i limiti della società capitalistica soprattutto nella sua incapacità di realizzare il plusvalore, e ciò per la limitatezza dei mercati. Per cui, anche per lei, era la sfera della circolazione e non quella della produzione che veniva a giocare il ruolo fondamentale e determinante per la vita o la morte del capitalismo.

Comunque, dalla sinistra pre-bellica (che comprendeva la Luxemburg, Liebknecht, Pannekoek e Gorter), insieme alle lotte concrete degli operai e, cioè, agli scioperi di massa scoppiati sia nell'Ovest che nell'Est, scaturì durante e immediatamente dopo la guerra un movimento organizzato in gruppi antiparlamentari e antisindacali che espresse in vari paesi delle direttive veramente anticapitalistiche. Nonostante le incoerenze e le insufficienze, questo movimento riuscì, fin dall'inizio, a formulare delle posizioni di radicale antagonismo nei confronti del capitalismo nella sua totalità, comprendente quindi anche il movimento operaio, che faceva parte anch' esso del sistema. Individuando nella presa del potere da parte di un partito una semplice sostituzione di sfruttatori, esso proclamava la necessità del controllo diretto degli operai in prima persona su tutta quanta la società. I vecchi slogans dell'abolizione delle classi, del sistema e del salario, cessarono di essere mere formulazioni verbali e divennero gli obiettivi immediati delle nuove organizzazioni. Lo scopo che questo movimento si prefiggeva non era la creazione di un nuovo gruppo dirigente della società, delegato ad agire «per conto degli operai » e perciò, con la possibilità di usare questo potere anche contro di loro, ma l'instaurazione di un'organizzazione della produzione che assicurasse agli operai la possibilità di controllarla direttamente.

Questi gruppi' rifiutavano di fare delle distinzioni fra i vari partiti e i vari sindacati, giudicandoli in blocco residui di uno stadio passato di sviluppo, in quanto si limitavano a lotte di gruppo all'interno della società capitalistica. Quello che a loro interessava non era rivitalizzare le vecchie organizzazioni, bensì rendere palese la necessità di organizzazioni dal carattere radicalmente diverso: delle organizzazioni, cioè, di classe, capaci non solo di cambiare la società, ma di organizzare anche la nuova società in maniera tale da rendere impossibile ogni forma di sfruttamento. Ciò che oggi rimane di questo movimento ha trovato una forma organizzativa permanente nei Gruppi dei comunisti consiliari. Essi si considerano marxisti e perciò internazionalisti. Avendo capito che, oggi, tutti i problemi sono problemi internazionali, essi si rifiutano di pensare in termini nazionalistici e dichiarano che tutte le considerazioni specificamente nazionali servono solo alle esigenze della concorrenza capitalistica. Nel loro stesso interesse gli operai devono sviluppare ulteriormente le forze produttive; il che può avvenire solo sulla base di un corretto internazionalismo. Questa posizione, però, non trascura le specificità nazionali e, perciò, non persegue l'obiettivo di elaborare una politica identica per i vari paesi. Ogni gruppo nazionale deve basare la sua attività sull'analisi dell'ambiente in cui si trova ad operare, in maniera del tutto autonoma dagli altri gruppi benché sia auspicato il raggiungimento, ovunque sia possibile, di un coordinamento delle attività mediante lo scambio di esperienze. Questi gruppi sono marxisti perché non hanno ancora elaborato una scienza sociale di livello superiore a quella di Marx, e perché i principi marxiani della ricerca scientifica sono ancora i più realistici, i più capaci di sussumere le nuove esperienze risultanti dal continuo sviluppo capitalistico. Il marxismo non è da loro concepito come un sistema chiuso, ma come il livello concreto di una scienza sociale in via di sviluppo, che può servire come teoria della lotta di classe pratica degli operai. La funzione principale di queste organizzazioni consiste, così, nella critica che non è più diretta, però, solo contro il capitalismo esistente ai tempi di Marx, ma si estende anche a quello sviluppo del capitalismo che ha preso il nome di «socialismo».

La critica e la propaganda sono le sole attività pratiche possibili oggi e la loro sterilità è solo il riflesso di una situazione manifestamente non rivoluzionaria. Il declino del vecchio movimento operaio, comprese le difficoltà e perfino l'impossibilità di portarne avanti uno nuovo, è una prospettiva deplorabile solo dal punto di vista del vecchio movimento operaio; i Gruppi di comunisti consiliari non ne gioiscono, anzi, se ne dispiacciono, ma prendono semplicemente atto della situazione, tenendo per fermo che la scomparsa del movimento operaio organizzato non porta alcun cambiamento nella struttura sociale, e che la lotta di classe deve continuare, operando sulla base delle possibilità date.



Una classe nella quale si concentrano gli interessi rivoluzionari della società, non appena si è sollevata trova immediatamente nella sua stessa situazione il contenuto e il materiale della propria attività rivoluzionaria: abbattere i nemici, prendere misure imposte dalle necessità stesse della lotta. Le conseguenze delle sue proprie azioni la spingono avanti. Essa non inizia indagini teoriche sui suoi compiti. K.Marx



Perfino una società fascista non può impedire alla lotta di classe di andare avanti, e anche gli operai fascisti saranno costretti a cambiare i rapporti di produzione. In ogni caso, oggi non siamo di fronte né ad una società fascista, né ad una società democratica, perché l'una e l'altra non sono che stadi differenti della stessa società; né più avanzati né più arretrati, ma solo differenti, risultando da cambiamenti nelle forze di classe della società capitalistica che hanno la loro origine da una serie di contraddizioni economiche.

I Gruppi di comunisti consiliari sostengono, inoltre, che nelle condizioni attuali non è possibile che avvenga nessun vero cambiamento sociale, se le forze anticapitalistiche non diventano più forti di quelle che sostengono il capitalismo, e che è impossibile organizzare forze anticapitalistiche di tali dimensioni all'interno dei rapporti capitalistici. Dall'analisi della società attuale e dallo studio delle lotte di classe precedenti, essi concludono che l'attività spontanea delle masse scontente creerà, nel corso di ribellioni, le organizzazioni adatte alle circostanze, le sole in grado di mettere fine, irrompendo dai confini delle condizioni sociali, all'attuale assetto sociale. Il problema dell'organizzazione, cosi com'è oggi discusso, viene considerato una questione completamente oziosa, perché le fabbriche, le imprese pubbliche, i posti di ristoro e gli stessi eserciti preparati per la guerra che sta per cominciare, offrono già sufficientemente l'adito alla formazione di attive organizzazioni di massa indistruttibili, qualunque sia il carattere assunto dalla società capitalistica. Come trama organizzativa della nuova società viene proposta l'organizzazione consiliare basata sull'industria e sul processo produttivo, con un tempo di lavoro medio come misura della produzione, della riproduzione e della distribuzione, insieme a tutti i provvedimenti utili ad assicurare l'eguaglianza economica in condizioni di divi-sione del lavoro. Questo tipo di società, si sostiene, sarà in grado di programmare la sua produzione in base ai bisogni e alle esigenze del popolo.

I Gruppi sono approdati, come è già stato detto, alla conclusione che una tale società può funzionare solo attraverso la partecipazione diretta dei lavoratori a tutti i livelli decisionali, e questa concezione del socialismo è irrealizzabile sulla base di una separazione fra operai e organizzatori. I Gruppi non pretendono di agire in nome degli operai, ma si considerano essi stessi membri della classe operaia, i quali hanno avuto, per una ragione o l'altra, la possibilità di constatare che la tendenza sociale attuale procede nel senso del crollo del capitalismo, e in questa direzione cercano di coordinare le concrete attività degli operai. Essi sono coscienti di non essere niente più che gruppi di propaganda, in grado di suggerire linee necessarie di azione, ma incapaci di eseguirle nell’« interesse della classe». Questo la classe deve farlo da sé. I Gruppi tentano di basare interamente la loro azione attuale sui bisogni degli operai, benché essa sia inserita in una prospettiva di lungo periodo. In tutte le occasioni, essi tentano di favorire l'iniziativa e l'azione autonoma degli operai, partecipando quanto più possibile alle azioni operaie di massa, senza un programma autonomo rispetto a quello stesso degli operai, di cui si cerca semplicemente di favorire al massimo la partecipazione diretta a tutte le decisioni. Essi dimostrano, con le parole e coi fatti, che il movimento operaio deve pensare solo ai propri interessi; che la società nella sua totalità non è una faccenda che li riguardi, dal momento che non esisterà mai una società davvero complessiva finché non saranno abolite le classi; che gli operai devono attaccare, e attaccano davvero le altre classi e tutti gli altri interessi presenti nella società basata sullo sfruttamento, solo quando essi tengono conto soltanto dei loro interessi specifici più immediati; che gli operai non possono sbagliare Finché fanno ciò che è loro utile economicamente e socialmente; che essi, infine, devono cominciare a risolvere i loro problemi oggi, preparandosi in questo modo a risolvere i problemi, ancora più urgenti, del domani.