venerdì 26 ottobre 2012

Roma Ribelle: festival di storia

Il Programma

FESTIVAL di STORIA
Roma città ribelle
Nuovo Cinema Palazzo 26/27/28 ottobre
Presso:
il Nuovo Cinema Palazzo, Piazza dei Sanniti 9
Facoltà di Lettere e Filosofia, Aula II, piano terra, Sapienza Università di Roma, P.le Aldo Moro 5
La Casa della Memoria e della Storia, Via S. Francesco di Sales 5
Venerdì 26:
10:00 Casa della Memoria: La città intelligente, il lavoro culturale a Roma al tempo della crisi
TAVOLA ROTONDA
Coordina: Circolo Gianni Bosio
Partecipano:
Monica Calzolari, Direzione generale degli Archivi di Stato
Rossana De Longis, Biblioteca di Storia moderna e contemporanea di Roma
Michele Di Sivo, Archivio di Stato di Roma
Elvira Grantaliano, Archivio di Stato di Roma
Lucia Zannino, Fondazione Basso
Giuseppe Allegri, Il Quinto Stato
Marcello Anselmo, Ex Asilo Filangieri/La Balena
Claudio Meloni, Funzione Pubblica CGIL
Ilaria Bussoni, Derive Approdi
Cecilia Palombelli, Viella Editore
Associazione culturale “La Lotta continua”
Nuovo Cinema Palazzo
Anomalia Sapienza
16:00 Facoltà di Lettere: Le Repubbliche Romane, dalla Repubblica Giacobina del 1798 alla Repubblica del 1849. Intervengono Marina Caffiero, Lucio Villari, Chiara Lucrezio Monticelli
18:30 Cinema Palazzo: Eresie nella Roma papalina. Intervengono Anna Foa, Giuseppe Marcocci, Antonella Ciccarelli
21:30 Cinema Palazzo: Serata a cura del circolo “Gianni Bosio”, concerto di Sara Modigliani e Piero Brega, con il “Coro multietnico Romolo Balzani”, diretto da Sara Modigliani e Felice Zaccheo
Sabato 27:
10:00 Facoltà di Lettere, dibattito: Voci fuori dal coro. Fonti orali e narrazione storiografica. Intervengono Sandro Portelli e Giancarlo Monina; videointervista con Ascanio Celestini ”Via Rasella: una bomba nel cappotto e una frittata di zucchine”, intervista a cura di Rosa Mordenti realizzata per il progetto editoriale ‘Guida alla Roma ribelle’
videointervista con Ascanio Celestini ”Via Rasella: una bomba nel cappotto e una frittata di zucchine”, intervista a cura di Rosa Mordenti realizzata per il progetto editoriale ‘Guida alla Roma ribelle’
16:00 Cinema Palazzo: il Ventennio a Roma. Intervengono Luciano Villani, Valerio Gentili e Roberto Carocci
18:30 Cinema Palazzo: La Resistenza a Roma. Intervengono Sandro Portelli, Davide Conti, Riccardo Sansone
21:30 Cinema Palazzo: Concerto del gruppo “Il muro del canto”
Domenica 28:
10:00 Cinema Palazzo: Mostra del libro storico: saranno presenti molte case editrici specializzate in storia
11:00 Cinema Palazzo: La cucina del popolo – Storia della cucina romana. Interviene Giuseppina Pisani Sartorio, Agostino Sotgia
13:00 Cinema Palazzo: Degustazione piatti dell’antica Roma, a cura del Gruppo Archeologico Romano
15:30 Cinema Palazzo: Proiezione del film-documentario “Canti lontani dal centro” di Marco Marcotulli
17:00 Cinema Palazzo: Roma ribelle: i luoghi e le lotte degli anni ’70. Contributi con alcuni dei protagonisti di quella stagione. Intervengono Miguel Gotor, Gabriella Bonacchi
21:30 Paola Minaccioni legge Belli
a seguire Adriano Bono
presenterà parte del progetto interamente dedicato ai sonetti di Gioacchino Belli
Mostra fotografica di Tano D’Amico al Nuovo Cinema Palazzo
festivaldistoria.wordpress.comwww.facebook.com/festivaldistoria.romaribellefestivaldistoria@gmail.com

domenica 21 ottobre 2012

Livorno sovversiva 20/10


Referendum sul lavoro? No grazie!

REFERENDUM SUL LAVORO (ART. 18 L. 300/70 E ART. 8 L. 138 bis),
UN’OPPORTUNITA’ DI MOBILITAZIONE O UNA RINUNCIA ALLA LOTTA?

 
Uno schieramento vario e composito delle sinistre, Di Pietro, Vendola, Ferrero, Diliberto, Bonelli, la Fiom, Alba, due giuslavoristi come Romagnoli e Alleva, altri pezzetti della Cgil, tra cui Gianpaolo Patta e Gianni Rinaldini, ha costituito il Comitato Promotore che ha depositato in Cassazione questi due quesiti referendari relativi all’art. 18 L. 300/70(Statuto dei Lavoratori) e dell’art. 8 L.138 bis(Manovra Finanziaria). A sostegno di questi Referendum si stanno accodando altri soggetti della sinistra politica, sociale e sindacale.
La nostra non sarà un’analisi completa del problema, proviamo però a presentare alcuni aspetti critici secondo noi importanti e, possibilmente contribuire ad una riflessione più generale. Certo queste riflessioni sono un punto di vista di parte, di alcuni compagni attivi sui propri posti di lavoro e nel territorio.
L’articolo 18 è diventato già da anni un problema simbolico molto forte. Allo stesso tempo si tratta di una maniera per distogliere l’attenzione da un attacco più complessivo che riguarda i salari, gli ammortizzatori sociali, i contratti nazionali di categoria, etc.. Oggi con la scusa dell’emergenza prodotta dalla crisi, si vuole completare lo smantellamento delle conquiste ottenute dal movimento operaio nel passato. Per i padroni e per i loro governi l’art. 18, da una parte, è una questione di principio, visto che questo strumento è utilizzabile in casi sempre più limitati e che milioni di lavoratori e precari sono oggi già esclusi dalla sua tutela. Per la borghesia è quindi una questione di principio perché si tratta di recidere ogni ricordo delle lotte degli anni ‘60 e ‘70, per concludere un periodo di restaurazione antisociale iniziato oramai molti anni addietro. Dall’altro l’abolizione parziale o completa di quest’articolo dello Statuto dei Lavoratori è un modo concreto ed efficace per eliminare le avanguardie più combattive dalle aziende medie e grandi.

Nella fase attuale di crisi del capitalismo, il riformismo nostrano offre armi sempre più spuntate che si trasformano in brucianti sconfitte per i lavoratori e le lavoratrici.
Sembra che la storia, anche quella molto recente, non insegni proprio nulla, a neanche dieci anni, era il 2003, dalla batosta del Referendum promosso da Rifondazione Comunista, per l’estensione dell’art. 18 ai lavoratori delle aziende con meno di quindici dipendenti, si vuole ripercorrere la strada che portò a quella cocente disfatta. Non era, del resto, la prima volta che si perdeva un Referendum, ma mai con quelle proporzioni. Il 15 giugno 2003 andarono a votare 12.667.178 cittadini e cittadine pari al 25,6% degli aventi diritto al voto, lontanissimi dal quorum necessario alla validazione della consultazione. Un fallimento pesante ed inconfutabile che ha ulteriormente deluso e demoralizzato i lavoratori e le lavoratrici. Un risultato pessimo che i padroni hanno sfruttato al meglio.
Sarebbe interessante sapere dai promotori di questa iniziativa, cosa sia cambiato in meglio in Italia, in termini di consenso e coscienza rispetto a nove anni fa, perché a noi sfugge proprio.
Prima di addentrarci in alcune critiche sull’istituto referendario, sui suoi pro e contro, è forse il caso anche brevemente di rinfrescarci la memoria su alcuni dei precedenti Referendum, relativi al mondo del lavoro, promossi negli anni ’80 e ’90.
Il 9 e 10 giugno 1985, si votò per esprimersi se abrogare il cosi detto decreto di San Valentino poi divenuto legge, che tagliava quattro punti percentuali della Scala Mobile. Per l’abrogazione, si schierarono il PCI(promotore del Referendum), DP, Lista Verde e MSI. Dall’altra parte schierati per il NO, tutto il Pentapartito più i Radicali. Nonostante vi fosse ancora un forte e combattivo movimento dei lavoratori, votarono 34.959.404 persone, il quorum fu raggiunto e il SI ottenne il 45,7 mentre il NO arrivò al 53,3. Una grave disfatta che peserà non poco tra i lavoratori e le lavoratrici. Il lavoro iniziato da Craxi sarà portato poi a termine da un altro socialista, Amato, neanche dieci anni dopo con l’eliminazione della Scala Mobile che sarà “sostituita” dal cosi detto Elemento Distinto della Retribuzione.
Finita la prima Repubblica, nel 1995, alcuni sindacati di base, Rifondazione e sinistra Cgil si fecero promotori di due Referendum relativi entrambi alla modifica dell’art. 19 dello Statuto dei Lavoratori, più un terzo sulla Contrattazione nel Pubblico Impiego, mentre un quarto quesito, invece era promosso da Radicali e Lega, e riguardava l’abrogazione della norma che imponeva la contribuzione sindacale automatica ai lavoratori. L’11 giugno gli italiani andarono alle urne per esprimersi su un totale di 12 quesiti referendari(tranne i tre di cui sopra, gli altri erano promossi dai radicali), questo ed altri fattori favorirono l’afflusso ai seggi e il raggiungimento del quorum. Si ebbe una “vittoria fittizia”. Il primo quesito sull’articolo 19, quello promosso da una parte del sindacalismo di base che voleva l’abrogazione dell’articolo, che attribuiva alle Confederazioni maggiormente rappresentative la titolarità della rappresentanza(richiesta massimale) non passò. Con un quorum del 57,2%(27.218.366 voti), i SI arrivarono al 49,97%, mentre i NO ottennero il 50,03%.
Al primo quesito su l’articolo 19, se ne era aggiunto un secondo in opposizione al primo, promosso dalla sinistra Cgil dell’epoca, di parziale abrogazione dell’articolo stesso(richiesta minimale), la cui approvazione ha prodotto l’attuale situazione. Con il 57,2%(27.702.339 voti) si raggiunse il quorum. Il SI ottenne il 62,1%, mentre il NO il 37,9%.
Gli altri due quesiti relativi alla contrattazione nel pubblico impiego e alla contribuzione sindacale automatica videro il raggiungimento del quorum e una vittoria del SI.
Incredibilmente e a sfregio di quella consultazione il segretario della Fiom, oggi, chiede (al Governo?) di ripristinare l’articolo 19 dello Statuto dei Lavoratori come era prima del Referendum abrogativo parziale(intervista a Landini su La Repubblica del 17 gennaio di quest’anno), cioè di ripristinare quel primo comma che attribuiva alle Confederazioni maggiormente rappresentative(CGIL,CISL,UIL e oggi la cooptata UGL) il monopolio della rappresentanza. Oggi la formulazione uscita dal Referendum del ‘95 colpisce, penalizzandola, la Fiom, così sostengono sia Landini che Fassina, divisi sull’attuale proposta referendaria, ma uniti nell’avversare l’esito della Consultazione del 1995, per imporre alle controparti padronali la Fiom come organizzazione riconosciuta tramite una legge dello Stato. Rinunciando così ad imporsi alla controparte sulla base dei rapporti di forza(il Sindacato dei Metallurgici conta più di 360.000 iscritti, ma ci sembra abbia un potere contrattuale minore di quello che hanno qualche migliaio di tassisti). Negli anni l’abrogazione parziale dell’art.19 ha colpito e fortemente limitato anche la crescita del sindacalismo alternativo impedendogli spesso di avere le trattenute sindacali, il diritto a tenere assemblee in orario di lavoro, di sedere ai tavoli negoziali anche nelle aziende in cui rappresenta una cospicua e/o maggioritaria parte dei lavoratori. Questo scempio si è andato ad aggiungere all’accordo della triplice, CGIL,CISL,UIL del ‘93 che attribuiva ai firmatari di contratto nazionale la riserva del 33% degli eletti nelle RSU a prescindere dai risultati elettorali, e di cui anche la Fiom ha lungamente beneficiato.
Comprendiamo l’inquietudine ed il tormento del Sindacato dei Metallurgici, attaccato frontalmente da Marchionne, messo all’angolo in aziende in cui la presenza della sua organizzazione è forte e radicata. Ma la dirigenza Fiom invece di farsi punto di riferimento di una ricomposizione del sindacalismo di classe e conflittuale, aldilà di qualche distinguo come questo dei Referendum, utile al recupero di consenso a sinistra, ci sembra sempre più appiattita ad una visione del Sindacato non troppo distante dal resto della Confederazione diventata da decenni una burocrazia parastatale con un’idea dell’organizzazione dei lavoratori che ha come modello, delle relazioni sociali basate sulla collaborazione(cogestione) tra le classi nell’interesse generale della nazione. Una visione e una pratica del sindacalismo in sostanza neocorporativo.
L’istituto referendario meriterebbe un approfondimento maggiore, viste anche tutte le implicazioni relative a quale tipo di democrazia ci interessa coltivare e sviluppare. Alcune brevi considerazioni sono però d’obbligo, visto che in questi ultimi anni c’è capitato di dover prendere posizione di fronte ad alcuni appuntamenti importanti come quelli sull’acqua ed il nucleare. Si tratta dunque di uno strumento di democrazia diretta che consente agli elettori-cittadini di fornire - senza intermediari - il proprio parere o la propria decisione su un tema specifico oggetto di discussione? Alcuni sostengono che l’utilizzo dell’istituto referendario è tuttavia indesiderato dalla maggior parte dei partiti politici, perchè il potere più rilevante dei partiti, consiste proprio nel controllo sulle procedure mediante le quali viene presa la decisione e si legifera, e quindi con il Referendum è l’intera classe politica che si sente espropriata della sua funzione.

Il Referendum è per noi un’arma a doppio taglio, da una parte infatti questo tipo di strumento oggi come oggi, in questa società, può essere un’arma plebiscitaria in mano ad una borghesia che detiene il monopolio dei mezzi di comunicazione, e che quindi è in grado di manipolare a suo piacimento informazioni e notizie, capace di determinare un consenso ampio tra le masse alla sua politica. Dall’altra parte, in alcune situazioni specifiche, è innegabile che su alcuni temi particolari(di carattere più interclassista) ci possa essere un sentimento diffuso di opposizione anche a ciò che i mass media propagandano, è stato così con le consultazioni relative al no al nucleare, alla depenalizzazione delle droghe leggere, fino a quella sull’acqua pubblica(accenniamo solo ai Referendum vinti, più recenti). In questi casi, nonostante i risultati delle votazioni, i Referendum sono però rimasti in buona parte lettera morta. Del resto per rendere inefficace una Consultazione basta che il Parlamento modifichi la legge in questione prima delle votazioni e il Referendum salta. Così come la vittoria in una consultazione referendaria non è garanzia di nulla, poiché la maggioranza parlamentare può sempre fare una legge, anche peggiorativa di quella precedente la Consultazione e vanificare così il Referendum e tutti gli sforzi fatti in tal senso. Un’altro problema non secondario è relativo al requisito del raggiungimento di un quorum per la validità del voto e dei suoi effetti. Se i contrari, in una consultazione, si dividono tra chi vota no e chi non vota per non far raggiungere il quorum, il sì può vincere anche con una minoranza: ad esempio se il 25% più 1 votano sì, il 25% vota no, il 25% non vota per non far raggiungere il quorum, e un’altro 25% sono quelli che comunque non vanno a votare, il quorum viene raggiunto e vince il sì, anche se i sostenitori del no sono il doppio. Del resto il 50% più uno è una maggioranza reale?
Non vogliamo però sostenere che il Referendum non possa essere, in alcuni casi, uno strumento da utilizzare, ma visti i limiti e le contraddizioni insiti di per sé in questo istituto, crediamo che ne vada fatto un uso attento ed intelligente. D’altro canto non possiamo neanche nasconderci che oggi dietro i Referendum si cela un modo per attingere ai finanziamenti pubblici, sappiamo bene infatti che per i promotori delle consultazioni ci sono lauti rimborsi elettorali.
Alla fine di questo ragionamento ci chiediamo: “Perché mai dovremmo andare a chiedere di votare per noi, a commercianti, liberi professionisti, datori di lavoro, ect., su un tema così particolare? Più in generale perché una massa eterogenea di lavoratori impiegati nelle piccole aziende, milioni di precari e lavoratori al nero senza contare la miriade di lavoratori formalmente autonomi, tutti lavoratori che l’articolo 18 dello Statuto non lo hanno mai conosciuto come una tutela concreta, dovrebbero recarsi alle urne e votare per l’abolizione dell’attuale modifica all’articolo?
Saremo maliziosi ma questa storia dei Referendum sul lavoro non ci piace proprio e ci sembra funzionale ad un ceto politico della sinistra inamovibile che unitamente alle burocrazie sindacali tenta di salvare la faccia di fronte alla propria base. Già li sentiamo, questi signori, argomentare la sconfitta con parole del tipo: “Noi ci abbiamo provato…ma che colpa abbiamo noi se questo paese è diventato di destra…”
Questa iniziativa è quindi per noi fuorviante e pericolosa per tutti i lavoratori “garantiti“ e/o precari che siano. Il problema non è solo la ricerca di visibilità della maggior parte delle forze politiche del Comitato Promotore, in vista delle prossime scadenze elettorali. Il vero problema è la rinuncia totale a costruire campagne di mobilitazione e lotte articolate a livello nazionale per la difesa dell’art. 18. Paradossalmente Cofferati, che non è certamente più a sinistra degli attuali promotori di quest’iniziativa, una grande mobilitazione di massa è riuscito a promuoverla!
La battaglia in difesa dell’articolo 18 e più in generale, di tutte le conquiste sociali ha un senso solo se si trasforma in una battaglia più generale per l’allargamento dei diritti a chi ne è escluso. Unico elemento, questo, che può trasformare una lotta di difesa, in una battaglia offensiva, di rilancio di una prospettiva tesa alla riconquista di diritti, agibilità, libertà nonché di salario, e che può unificare una classe frammentata e divisa, contro l’Europa dei padroni e della finanza e le loro politiche di rapina e guerra.
Roma sett. 2012
CENTRO DOCUMENTAZIONE ANTAGONISTALA TALPA-


giovedì 11 ottobre 2012

presentazione del libro "A testa alta!"

"amo la lotta e la carta stampata"
Presentazione del libro
 
A TESTA ALTA!
Ugo Fedeli e l'anarchismo internazionale (1911-1933)
(sarà presente l'autore)
a seguire Cena e Bicchierata
 venerdi 12 ottobre dalle ore 18.30
alla sede anarchica E.Malatesta - via Bixio, 62 (Piazza Vittorio). Tram 5 e 14. Bus 105. Metro A fermata Vittorio
a cura della Libreria Anomalia/CDA e dei Punx Anarchici "Protest to Survive

domenica 7 ottobre 2012

P. Ferraris, "Le due libertà"

Pino FERRARIS
LE DUE LIBERTA'
("Una Città", n. 101, febb. 2002)
 
Per l’anarchico Malatesta libertà e autorità sono incompatibili, per il socialista Turati libertà e autorità, al fondo, si identificano. Per Merlino la libertà non può non fare i conti con la rappresentanza democratica, ma nello stesso tempo non c’è democrazia senza libertà e autonomia dei singoli e dei gruppi. L’attualità di un dibattito sulle due libertà nella crisi del fordismo. Intervento di Pino Ferraris.

Il 10 e 11 gennaio, in occasione dell’uscita del n. 100 di Una città, si è tenuto a Forlì un convegno dal titolo “Le due libertà”, a cui hanno partecipato Pietro Adamo, Luca Baccelli, Nico Berti, Aldo Bonomi, Guido Montani, Pierpaolo Poggio, Andrea Ranieri, Gianni Sofri, Fabrizio Tonello, Nadia Urbinati. Pubblichiamo l’intervento introduttivo di Pino Ferraris.

Voglio subito precisare che questo mio intervento non vuole e non può essere un contributo di ricostruzione storiografica. Il richiamo al passato è esplicitamente sottomesso all’urgenza del tentativo di rischiarare alcuni problemi del presente.
Il riferimento alla discussione tra Saverio Merlino e Errico Malatesta su anarchia e democrazia nel 1897, il richiamo alla polemica tra Merlino e Filippo Turati su collettivismo, lotta di classe e ministerialismo nel 1901 potrebbero rappresentare l’accenno a quello che sarebbe un ben più impegnativo e suggestivo lavoro: mettere in luce la poliedrica ricchezza del dibattito socialista nella fine dell’800 confrontando i tre modi concreti di vivere e di pensare la relazione tra socialismo, libertà e democrazia in questi tre esponenti di spicco: l’anarchico Errico Malatesta, il socialista liberale ante-litteram Saverio Merlino e il socialista democratico Filippo Turati.
Non è certo quello che sono in grado di fare. Mi limiterò a trarre dalla trama di antiche polemiche giornalistiche spunti personali che possono toccare problemi ancora vivi, come ad esempio il rapporto tra libertà e democrazia o la lotta anti-autoritaria di libertà.
Una considerazione preliminare: l’uso del diverso aggettivo (libertario, liberale, democratico) per connotare il sostantivo socialismo incide in profondità sui caratteri, sulla qualità del sostantivo stesso. Sono socialismi molto diversi che si confrontano.
Dura un anno la polemica tra Merlino e Malatesta su anarchia e democrazia: dal gennaio 1897 al gennaio 1898.
Per Merlino questo scontro con l’amico e il compagno di tante battaglie comuni segna il suo esplicito distacco dalla corrente anarchica nella quale aveva militato per venti anni.
L’ avvio del dibattito scaturisce dalla acuta percezione da parte di Merlino del fatto che nel clima reazionario e illiberale di quegli anni matura la forte esigenza della difesa delle libertà politiche, e che questa azione di difesa deve avvenire anche attraverso l’impegno elettorale e parlamentare.
Merlino invita gli anarchici ad abbandonare il loro rigido astensionismo che rischia di isolarli in una posizione di sterile testimonianza.
Egli prende contemporaneamente le distanze dai socialisti parlamentari e statalisti che si illudono, scrive, “di poter far breccia a colpi di schede nella cittadella borghese e conquistarla”.
Crede di poter proporre una posizione intermedia che colga il meglio dell’ipotesi anarchica e tenga conto degli aspetti positivi della proposta socialdemocratica.
La risposta che viene da Errico Malatesta è intransigente e rigorosa: la partecipazione al voto non è una questione tattica, ma comporta la rinunzia a “tutto intero il programma anarchico”.
Raccogliendo ed estremizzando le riserve e le critiche del liberalesimo alla democrazia, egli ricorda come la democrazia rappresentativa non sia affatto il luogo che raccoglie e conserva le libertà, ma il contesto nel quale si alimenta l’autoritarismo illiberale: il potere che scende dall’Alto in nome del basso, in nome e per conto della sovranità popolare, è un potere particolarmente invasivo ed esigente. Il socialismo di stato concede dall’alto proprio in quanto riesce a sostituirsi all’esperienza di libertà, alla spontaneità sociale del basso.
Non vi può essere mediazione nella differenza sostanziale che separa le due posizioni: o autorità o libertà, coazione o consenso, obbligatorietà o volontarietà.
Sono alternativi i due modi di lotta politica: quello di coloro che vogliono conquistare i pubblici poteri e quello di coloro che vogliono abolire il governo e non già occuparlo.
Saverio Merlino cerca di incalzare Errico Malatesta in quanto anarchico non individualista, in quanto anarchico socialista che deve mediare il radicalismo delle libertà e delle autonomie con i limiti necessari che provengono dalle forme di organizzazione della convivenza sociale.
Un pensiero libertario socialista non può, secondo Merlino, evitare di fare i conti realisticamente con la forma della rappresentanza, con il principio di maggioranza, con la divisione del lavoro, con quei germi di autorità che fermentano dentro la democrazia: non si può restare ad essi indifferenti, occorre controllarli, limitarli, neutralizzarli.
Tra la perfetta armonia anarchica delle volontà e il dispotismo autoritario vi sono forme intermedie nelle quali l’espansione delle libertà individuali può convivere con la necessaria gestione delegata degli interessi generali e indivisibili della società.
Il rischio oligarchico, che non è solo nei parlamenti ma anche all’interno delle associazioni, deve essere bilanciato accentuando al massimo la forma federativa e i contenuti libertari da far vivere dentro la democrazia. Non c’è pacifica convivenza e tantomeno scontata complementarietà tra libertà e democrazia; la cosiddetta liberal-democrazia non è uno stato solido, ma un equilibrio molto instabile.
La difesa giuridica e le garanzie dei diritti di libertà sono importanti ma da sole non reggono se la libertà non vive direttamente esercitata nelle esperienze delle persone e dei raggruppamenti.
Il “riformismo rivoluzionario” cui Merlino si richiamava consisteva proprio nell’affermazione del ruolo propulsivo della azione extra-istituzionale ai fini stessi del graduale riformismo sociale e dell’evoluzione istituzionale.
Nella successiva polemica con Filippo Turati l’argomentazione di Saverio Merlino si svolge con acuto buon senso e viva consapevolezza della realtà, ma nonostante ciò suscita uno scatto di incomprensibile violenza nel suo interlocutore.
Ciò che Turati sembra percepire come intollerabile minaccia è il richiamo di Merlino alla spontaneità sociale, alle iniziative autonome, all’esercizio diretto di libertà civili. Questi confusi richiami, secondo Turati, manifestano la pericolosa persistenza di uno “spirito anarcoide” che non deve essere importato nel partito, ma rispetto al quale c’è la necessità di “epurarci e disciplinarci”.
Per Turati la libertà è ben altra cosa dell’impulsività e della irrazionalità delle folle incolte ed arretrate, la libertà si identifica con il giusto disegno che risponde ai veri interessi delle masse; disegno che solo l’élite è in grado di riconoscere e di imporre. In questa logica la “vera” libertà non solo non è incompatibile ma coincide con l’autorità.
Il dibattito polemico di Merlino con Turati parte da un lungo e impegnativo articolo che il leader socialista pubblica su Critica Sociale il 16 luglio 1901. Proprio all’indomani dell’eccidio di Berra da parte della truppa che ha sparato contro i contadini ferraresi, subito dopo che il governo stesso ha difeso l’operato dei militari, Turati, senza indugi, scende in campo a difendere il sostegno parlamentare dei socialisti al governo Zanardelli che, per la prima volta, egli scrive, apre un periodo di consolidamento della libertà e del rispetto della legge.
L’intervento di Turati è direttamente politico ma con pretese di dottrina. Egli prende l’avvio da molto lontano, dai “cardini della dottrina socialista”: il collettivismo e la lotta di classe.
Solo al paragrafo sei giunge infine a parlare dei “fatti di Berra” (tre morti e 23 feriti) considerati però come un “episodio fugace per quanto tristissimo” davanti al quale non occorre innestare “facili volate retoriche” o cedere agli “impulsi della cieca passione”.
Egli sostiene che la continuazione del sostegno socialista al governo non è frutto di un cedimento ministerialista, ma ribadisce una scelta che ha come posta in gioco “la libertà, questa grande redentrice”.
Le polemiche, i dibattiti interni al partito socialista in questo avvio dell’età giolittiana sono molto accesi e Turati è in minoranza proprio in casa sua, a Milano.
Quale era la libertà che ad ogni costo voleva difendere Turati?
Carlo Rosselli tracciando un affettuoso, commosso e lucido profilo di Filippo Turati subito dopo la sua morte accenna all’incomprensione delle giovani generazioni nei confronti di quella transizione di inizio secolo verso il ministerialismo che Turati impone in nome della libertà. “C’era la libertà -commenta Rosselli- è vero, ma quale libertà? Essa non si presentava loro (ai giovani) come il coronamento di un gran moto di popolo, o come conquista lenta ma inarrestabile per pressione di masse coscienti; ma come elargizione dall’alto, come concessione graziosa, fatta più per interesse dinastico… che per necessità storica”. In realtà Turati vede la libertà soprattutto come libertà politica di organizzazione e di propaganda, come lo spazio vitale per costruire una élite colta capace di organizzare nel basso e di rappresentare verso l’alto le masse ancora arretrate sempre oscillanti tra l’inerzia e l’impulsività.
Il democratico Filippo Turati, organizzatore di rappresentanza popolare per influire sull’azione riformatrice dello stato, non può certo essere accusato di particolari sensibilità libertarie e forse neanche liberali.
Le critiche che Saverio Merlino rivolge a Turati cercano di andare alla radice, di toccare alcuni problemi di fondo come quello del collettivismo, cioè dell’ipotesi di statizzazione integrale dell’economia, che egli ritiene insieme utopica e pericolosa per le insidie di un possibile universo di autoritarismo burocratico ad essa collegato.
L’accusa principale che gli rivolge è quella di realizzare ed esasperare una frattura micidiale tra un rigido ed altisonante frasario ideologico marxista (collettivismo e lotta di classe) e uno scambio politico di bassissimo livello tra protezione ministeriale di interessi corporativi e produzione di consenso popolare incondizionato e subalterno alla classe politica di governo.
Merlino contesta questo tipo di ministerialismo che si vuole giustificare con la necessità di ottenere una “tregua della libertà”.
In nome della libertà esterna di fare propaganda -incalza- voi perdete la “libertà interna” cioè il sentimento dei propri diritti e la volontà di farli valere. I socialisti sono da rimproverare perché insieme ai voti hanno dato al governo anche la loro anima, cioè la loro autonomia, il distacco critico, la capacità propria di saper comunque ottenere riforme per forza di popolo e non solo per concessione di governo. Che razza di libertà è quella che può praticare, per grazia di governo, un popolo ammansito, subalterno e passivo?
Le repliche di Turati sono sprezzanti e denigratorie: Merlino sarebbe un anarchico di lungo corso infiltrato nella sezione socialista di Napoli per introdurre “il suo bagaglio di anarchismo raddolcito, riformista, piccolo-borghese e dichiaratamente anti-collettivista…”.
E’ inquietante ricordare i modi, i mezzi, i toni con cui i socialisti autoritari di partito, i Bissolati, i Turati, Antonio Labriola, isolano, diffamano, annullano la volontà di presenza politica attiva e dialogante di Saverio Merlino. Già in quegli anni nella pratica e nella cultura del partito socialista si poteva vedere all’opera una tendenza schiettamente illiberale.
Con gli anni della Prima guerra mondiale, e subito dopo con l’affermarsi del bolscevismo russo accanto alla tradizione della socialdemocrazia tedesca, la politica a sinistra mostra un volto solo: quello dell’autorità, della statualità.
Scompare l’idea stessa di una trasformazione della società che possa avvenire attraverso processi di politicizzazione, di produzione di coscienza dall’interno dell’esperienza sociale di lavoro e di vita e nel corso dell’azione diretta di grandi masse. Con la militarizzazione della politica diventa dogma la concezione dispregiativa della massa come irrimediabilmente incompetente, cieca ed amorfa, come materia prima umana, “truppa”, oggetto della manipolazione ideologica e della mobilitazione amministrate dagli “stati maggiori”.
All’interno delle organizzazioni così come nei sistemi di governo si estende il contagio della democrazia autoritaria.
E’ difficile, richiede un esercizio eccezionale di immaginazione da parte delle nuove generazioni, riuscire a percepire da quali lontananze e da quali profondità provenga l’insofferenza autoritaria verso le libertà, le autonomie e la spontaneità nella tradizione che fu maggioritaria e vincente dentro il socialismo.
Il richiamo a questi vecchi dibattiti da un lato ci ricorda le radici antiche delle impotenze che gravano ancora dentro il presente, dall’altro rimette nel circuito della cultura quelle che furono le altre ragioni del socialismo libertario, del socialismo liberale, aiutando a reinventare una tradizione pluralista e a rinnovare una memoria che sia più utile a costruire futuro.
Mi sembra che meriti una riflessione l’atteggiamento apparentemente contraddittorio di Francesco Saverio Merlino.
Nel 1897 Merlino in nome della “difesa delle libertà politiche” richiama il radicalismo libertario di Malatesta al realismo della battaglia democratica.
Nel 1901 quello stesso Merlino contesta a Turati il diritto di invocare la difesa della libertà rimanendo all’interno dell’autoreferenzialità della mera sfera politica.
Non è incomprensibile e incoerente il comportamento di Saverio Merlino.
Quante volte noi stessi siamo stati portati al doppio movimento di difesa e di critica della democrazia?
Questi atteggiamenti scaturiscono dall’ambivalenza della stessa democrazia, che sempre si ripropone come il terreno di apertura di spazi possibili di libertà, ma anche come il luogo nel quale può avvenire l’esproprio autoritario delle nostre autonomie. L’uomo democratico si mostra oggi atomizzato, apatico e dipendente, mentre noi sappiamo che è stato e può essere attivo, cooperante e libero.
Il nocciolo vitale e progressivo della democrazia sta in gran parte fuori dell’ambito circoscritto della democrazia stessa, se per democrazia intendiamo riferirci allo spazio che definisce il chi e il come del governo.
Si commette un errore grave, e quasi sempre lo si commette a sinistra, quando si pretende di affermare che la libertà c’è in quanto è realizzata nella democrazia, nelle regole della rappresentanza e del gioco politico.
Non è la circolazione delle élites al potere che caratterizza e qualifica una società come società libera, ma è piuttosto la presenza in essa di singoli cittadini liberi e di associazioni indipendenti. La visione e la passione anche semplicemente liberali di cogliere e stimolare, arricchire e valorizzare tutto ciò che vive come autodeterminazione e capacità del far da sé al di là della circonferenza della statualità rappresentano l’anima mancante della tradizione del socialismo maggioritario e del presente impegno a sinistra.
Una ulteriore breve osservazione mi viene suggerita dal rigore polemico di Errico Malatesta che, nella discussione con Merlino, non cede di un millimetro sulla proposizione della libertà come esercizio costante di pensiero e di azione antiautoritari. Egli non perde mai il nesso essenziale di stringente e radicale opposizione tra libertà e autorità: dove c’è autorità cade la libertà, affermare la libertà significa infrangere l’autorità.
La storia delle lotte di libertà va di pari passo con l’incessante riprodursi dei meccanismi che minacciano libertà acquisite e che generano forme nuove di illibertà.
In noi oggi sembra prevalere una illusione di pacifico consumo di diritti di libertà; pensiamo sovente di poterci concedere il lusso della libera circolazione all’interno di spazi garantiti rispetto ad una autorità per così dire allontanata e addomesticata.
La libertà come una continua conquista che si realizza sulla frontiera, nella frizione e nell’urto contro le muraglie dei vincoli interni ed esterni di autorità; la libertà che è impegno di critica costante, coraggio della disubbidienza e della rivolta, appare oggi cosa sempre più difficile da pensare e ancor più da realizzare in uno stile di vita della personalità libera.
Che dire del vecchio John Stuart Mill che scorgeva nel pensiero eretico e nel comportamento eccentrico il lievito indispensabile di una società schiettamente liberale?
Scriveva Albert Camus: “Mi rivolto dunque siamo”. Dal singolare al plurale. Partendo da ognuno si può arrivare a tutti.
Nella tradizione del socialismo anarchico la radicalizzazione antiautoritaria della affermazione di libertà individuale richiama sia l’agire cooperativo sia il fine egualitario che spezza divisioni sociali e barriere gerarchiche.
Le autonomie personali e sociali però vivono e si espandono se autonomia, nel senso letterale del termine, significa dare legge a se stessi e cioè porre dentro di sé quel limite a se stessi che apre al riconoscimento dell’altro. Le autonomie chiuse e confliggenti evocano immediatamente l’opposto, l’eteronomia, chiamano l’intervento del Terzo, ripropongono il ritorno del Centro, dello Stato mediatore.
Ritornando alle discussioni, alle ricerche, alle passioni di uomini e donne di tempi lontani e molto diversi dal nostro, non possiamo certo pensare di trovare soluzioni, ricette ai problemi del presente, possiamo però ricevere stimoli a porre questioni a lungo rimosse, a sollevare interrogativi elusi come appunto quello di una politica della libertà a sinistra, come quello del confronto e scontro fra due concezioni, due pratiche delle libertà nel presente.
Dalle tensioni contraddittorie che si esprimono nell’attualità vedo salire una necessaria nuova controversia radicale sulla libertà.
Mi sembra addirittura straripante la vocazione all’illegalismo di tutti i poteri forti che percepiscono e soffrono il principio di legalità come un indebito intralcio all’illimitata sovranità popolare e al dispiegarsi del libero mercato.
Qui si manifesta quella libertà di destra che Luigi Ferrajoli vede insorgere sia come assolutismo di maggioranza (legibus soluta) nella quale il richiamo ad investiture plebiscitarie tende ad incrinare i vincoli che garantiscono le libertà di tutti; sia come assolutismo di mercato (legibus solutus) che nella sua sregolatezza tende ad imporre il diritto del più forte e il privilegio monopolistico, spezzando e spazzando via l’ingombro dei diritti sociali e del diritto del lavoro. Il fatto che l’affermazione di queste libertà potestative e patrimoniali dei pochi possa tradursi come immaginario di liberazione per molti testimonia appunto la mancanza di una sfida politica e culturale alternativa giocata su questo terreno della libertà. Eppure i fermenti per costruire una alternativa di libertà esistono proprio in quella società dei lavori sconvolti, irriconoscibili e sconosciuti che sembra ormai scomparsa dall’orizzonte della sinistra. La lunga età del taylorismo fordista ha accentuato sino all’esasperazione il momento dell’eterodirezione nel lavoro, richiedendo in modo parossistico disciplina passiva ed esecuzione cieca.
Rispetto a questa radicale alienazione del lavoro costretto, il fordismo ha attivato una logica di risarcimento fuori dal lavoro con la crescita del reddito-consumo e con le tutele dello stato assistenziale. Dentro la sempre ricorrente tensione tra uguaglianza e libertà, nel corso del ‘900, l’eguaglianza, nella particolare versione dell’omologazione nel consumo di massa, si è affermata a scapito delle esigenze di autonomia e di libertà.
L’attuale crisi del fordismo sembra operare una diversa configurazione del binomio vincolo ed autonomia dentro il lavoro: si accentua l’elemento di autonomia pur dentro la dipendenza.
Penso alla fabbrica integrata ad automazione flessibile dove si richiede responsabilità ed iniziativa al lavoro avanzando la paradossale pretesa di una “autonomia in linea gerarchica”.
Penso anche a ciò che avviene nel nuovo articolarsi del mercato del lavoro flessibile, il lavoro autonomo, il lavoro parasubordinato.
In tutte queste situazioni di lavoro post-fordista si richiede di mobilitare una soggettività che contemporaneamente viene frenata e frustrata, si richiedono assunzioni di responsabilità senza riconoscere diritti, si sollecita l’autonomia sotto il vincolo dell’autorità.
E’ possibile stimolare l’iniziativa, il pensiero degli uomini e delle donne al lavoro, tenendo sotto controllo l’imprevedibile e fuorviante tentazione della libertà?
Forse lo scontro dentro al lavoro si sposta sempre più sul terreno delle libertà, delle autonomie.
La problematica delle due libertà non sta quindi soltanto all’interno delle elaborazioni culturali; a me sembra ormai di vederla in atto e operante dentro l’esperienza e nella realtà.
L’una si manifesta con prepotenza ed irruenza sospinta dai poteri alti, l’altra si agita inespressa nel sottosuolo della società.
Intanto a sinistra la parola libertà continua ad indicare una assenza, mentre la parola lavoro richiama soltanto antiche radici divelte.

sabato 6 ottobre 2012

Gli Arditi del Popolo

Gli Arditi del Popolo, la prima organizzazione antifascista (1921-22)
a cura di Eros Francescangeli

Benché l'antifascismo – inteso sia come teorizzazione politica che come risposta militare - nasca quasi contemporaneamente alla comparsa dello squadrismo, le prime forme di resistenza al fascismo sono sicuramente meno note di quelle legate alle esperienze della guerra civile spagnola e della Resistenza. Nel secondo dopoguerra, l'antifascismo sconfitto degli Arditi del popolo è stato relegato ai margini della storiografia, benché dietro esso vi fossero sia - come notò Guido Quazza - "tutta una storia", sia le stesse ragioni fondanti della Resistenza. Tra le ragioni di questa parziale rimozione, vi possono essere quella delle origini e della natura della prima associazione antifascista (permeata da miti arditistico-dannunziani, successivamente fatti propri dal fascismo, e, al contempo, attestata su posizioni genericamente rivoluzionarie) e quella della difficile autocritica degli attori di allora (dalle istituzioni alle forze politiche e sociali) le quali non compresero appieno la portata del fenomeno fascista e che, tranne qualche eccezione, ostacolarono la diffusione dell'antifascismo del 1921-22. Un antifascismo forse (e comunque solo per taluni aspetti) distante, per contenuti e forme, da quello istituzionalizzatosi nell'Italia repubblicana; ma pur sempre un antifascismo nel quale l'esperienza resistenziale e il movimento democratico sorto da essa trovano la loro origine.

Nascita del movimento

Nati a Roma gli ultimi giorni di giugno del 1921 da una scissione dell'Associazione nazionale arditi d'Italia, per iniziativa dell'anarchico Argo Secondari (ex tenente dei reparti d'assalto nella prima guerra mondiale), gli Arditi del popolo si propongono di opporsi manu militari alla violenza delle squadre fasciste. Estenuate da mesi di spedizioni punitive, le masse popolari colpite dallo squadrismo accolgono la loro nascita con entusiasmo. Stanche dei crimini fascisti, esse vedono concretizzarsi nella nuova organizzazione quella volontà di riscossa che trae origine - soprattutto negli strati meno politicizzati della classe lavoratrice - dal puro e semplice istinto di sopravvivenza. La comparsa degli Arditi del popolo rappresenta indubbiamente, per il proletariato italiano, il fatto eclatante dell’estate1921. Sia costituendosi ex novo che appoggiandosi alle sezioni della Lega proletaria (l'associazione reducistica legata al PSI e al PCd'I) o a formazioni paramilitari preesistenti (quali gli Arditi rossi di Trieste o i Figli di nessuno di Genova e Vercelli), nascono in tutta Italia sezioni di Arditi del popolo, pronte a fronteggiare militarmente lo squadrismo fascista. Il nuovo governo, presieduto da Ivanoe Bonomi, guarda al fenomeno arditopopolare con estrema preoccupazione, poiché la comparsa delle formazioni armate antifasciste rischia di affossare l’ipotesi della realizzazione di un trattato di tregua tra socialisti e fascisti (quello che sarà, nemmeno un mese dopo, il "Patto di pacificazione") fortemente desiderato dal presidente del Consiglio.

Il 6 luglio 1921, presso l'Orto botanico di Roma, ha luogo un'importante manifestazione antifascista alla quale prendono parte migliaia di lavoratori e la cui eco arriva fino a Mosca: la "Pravda" del 10 luglio ne fa infatti un dettagliato resoconto e lo stesso Lenin, favorevolmente colpito dall'iniziativa e in polemica con la direzione bordighiana del PCd'I, non ha dubbi a indicarla come esempio da seguire. Dopo questo imponente raduno, la struttura paramilitare antifascista diviene, nel volgere di pochi giorni, un'organizzazione diffusa capillarmente. Le linee di espansione dell'associazione seguono, principalmente, le direttrici che dalla capitale conducono a Genova (Civitavecchia, Tarquinia, Orbetello, Piombino, Livorno, Pisa, Sarzana, La Spezia) e ad Ancona (Monterotondo, Orte, Terni, Spoleto, Foligno, Gualdo Tadino, Iesi). Ma anche in molti altri centri al di fuori di queste due vie di comunicazione gli arditi del popolo riescono a costituirsi in gruppi numericamente consistenti. Rilevanti sono, a riguardo, quelli del Pavese, di Parma, Piacenza, Brescia, Bergamo, Vercelli, Torino, Firenze, Catania e Taranto. Ma anche in alcuni centri minori gli arditi del popolo riescono ad organizzarsi efficacemente.

I numeri dell'organizzazione

Prendendo in considerazione le sole sezioni la cui esistenza è certa, l’organizzazione antifascista risulta strutturata, nell’estate del 1921, in almeno 144 sezioni che raggruppano quasi 20 mila aderenti. Le 12 sezioni laziali (con più di 3.300 associati) primeggiano con quelle della Toscana (18, con oltre 3.000 iscritti). In Umbria gli arditi del popolo sono quasi 2.000, suddivisi in 16 sezioni. Nelle Marche sono quasi un migliaio, in 12 strutture organizzate. In Italia settentrionale, la diffusione del movimento è significativa in Lombardia (17 sezioni che inquadrano più di 2.100 Arditi del popolo), nelle Tre Venezie (15 nuclei per circa 2.200 militanti) e, in misura minore, in Emilia Romagna (18 sezioni e 1.400 associati), Liguria (4 battaglioni e circa 1.100 Arditi del popolo) e Piemonte (8 e circa 1.300). Nel Meridione le sezioni sono 7 sia in Sicilia che in Campania, 6 in Puglia, 2 in Sardegna e solo una in Abruzzo e in Calabria, mentre gli iscritti sono circa 600 in Sicilia, poco più di 500 in Campania e nelle Puglie, quasi 200 in Abruzzo e poco meno in Calabria, 150 in Sardegna.

La struttura militare

Sotto il profilo tecnico-militare, gli Arditi del popolo sono una struttura militare agile, capace di convergere in poco tempo dove si presuma possa avvenire una spedizione punitiva dei fascisti. L'organizzazione antifascista cerca inoltre di esercitare il controllo del territorio attraverso marce per le strade cittadine oppure, alla stregua di una vera e propria milizia di quartiere, pattugliando il territorio e identificando gli elementi filofascisti. Non deve meravigliare dunque che la struttura organizzativa dell’arditismo popolare privilegi l’aspetto militare su quello politico. Gli Arditi del popolo sono strutturati in battaglioni, a loro volta suddivisi in compagnie (altrimenti dette centurie) e in squadre. Ogni squadra è composta da dieci elementi più il caposquadra; ogni compagnia è costituita da quattro squadre più il comandante di compagnia; il battaglione, infine, risulta composto da tre compagnie più il comandante di battaglione. Dunque, 136 uomini coadiuvati da un plotone autonomo di sicurezza di altri 10 elementi. Ogni battaglione ha al suo interno delle squadre di ciclisti per mantenere i collegamenti tra i vari battaglioni (rionali nelle grandi città). I ciclisti assicurano inoltre i collegamenti tra il comando generale, i battaglioni e altri soggetti (sedi operaie, ferrovieri, tranvieri, operai d’arsenali, "ufficio stampa e giornale della sera"). L’addestramento degli inquadrati avviene mediante apposite esercitazioni, le quali, comunque, molte volte si risolvono in esercizi formali.

Dal punto di vista organizzativo, la struttura del movimento ardito-popolare non è accentrata in modo eccessivo. Ai vari Direttorii dei Comitati regionali (varati solo sulla carta al primo congresso dell’associazione) vengono lasciati ampi margini di autonomia. Nella pratica, ogni sezione dell’associazione decide autonomamente il da farsi e il proprio stile di lavoro. Stile che – ovviamente – muta a seconda della corrente politica dominante nella determinata realtà. Proprio perché l’organizzazione si dichiara estranea a qualsiasi raggruppamento politico, l’inquadramento nelle centurie non avviene, di norma, sulla base dell’appartenenza ad una determinata organizzazione del movimento operaio. Accade però che in alcune realtà (come ad esempio Livorno) gli Arditi del popolo si dividano in compagnie sulla base dell’appartenenza politica.

I simboli dell'arditismo

Al pari della struttura tecnico-militare, anche i simboli della prima organizzazione antifascista derivavano dall’arditismo di guerra: un teschio cinto da una corona d’alloro e con un pugnale tra i denti con sotto scritto – in caratteri maiuscoli – "A noi!" è il simbolo dell’associazione. Il timbro del direttorio è costituito invece dal pugnale degli arditi, circondato da un ramoscello di alloro e uno di quercia incrociati. Effigi allora in gran voga e non certo patrimonio esclusivo dei Fasci di combattimento o delle forze politiche di destra. In qualche caso, come a Civitavecchia, il gagliardetto degli Arditi del popolo (una scure che spezza il fascio littorio) esprime invece più chiaramente la ragion d’essere dell’organizzazione. Anche se non si può parlare di una vera e propria divisa, gli arditi del popolo, come del resto la quasi totalità dei giovani militanti dei partiti politici dell’epoca, ne hanno genericamente una: indossano un maglione nero, pantaloni grigio-verdi e, a volte, portano una coccarda rossa al petto. Molti Arditi del popolo infine, durante scontri e combattimenti, si proteggono il capo con gli elmetti Adrian. Gli inni dell’organizzazione ricalcano anch’essi, per musica e testi, i motivi dell’arditismo di guerra. Dell’inno "ufficiale", cantato sull’aria di quello degli arditi "Fiamme nere", è conservata copia nelle carte di polizia. "Siam del popolo - le invitte schiere/ c’hanno sul bavero le fiamme nere/ Ci muove un impeto - che è sacro e forte/ Morte alla morte - Morte al dolor", recita il ritornello; mentre l’ultima strofa dichiara programmaticamente: "Difendiamo l’operaio/ dagli oltraggi e le disfatte/ che l’Ardito, oggi, combatte/ per l’altrui felicità!" Nel settembre 1921 l’organo dell’associazione, "L’Ardito del popolo", pubblica invece un’altra versione dell’inno più esplicitamente antifascista. Sull'aria di "Giovinezza", i primi versi della canzone recitano così: "Rintuzziamo la violenza/ del fascismo mercenario./ Tutti in armi! sul calvario/ dell’umana redenzion./ Questa eterna giovinezza/ si rinnova nella fede/ per un popolo che chiede/ uguaglianza e libertà."

partecipanti

Gli organizzatori dell’associazione, a seconda della tradizione politica delle località in cui essa è presente, sono i militanti dei movimenti e dei partiti politici proletari o "sovversivi": anarchici, comunisti, socialisti massimalisti (in particolare terzinternazionalisti), repubblicani, ma anche sindacalisti rivoluzionari e, in alcune zone del paese, popolari. Oltre all'intenzione di opporsi alle violenze delle camicie nere con pratiche di resistenza armata, ciò che tiene unite queste differenti correnti del movimento operaio è la comune lettura del fenomeno fascista come reazione di classe. Il fattore coagulante non è dunque politico-ideologico, ma prettamente sociale. A livello sociale, il profilo prevalentemente proletario del movimento è una caratteristica evidente in tutto il territorio nazionale. I lavoratori delle Ferrovie dello Stato sono numerosissimi, molti sono gli operai in genere e i metalmeccanici in particolare, parecchi i braccianti agricoli, gli operai dei cantieri navali, i portuali e i marittimi. Vari sono pure gli operai edili, i postelegrafonici, i tranvieri e i contadini. Ma vi sono anche, in misura minore e soprattutto tra i gruppi dirigenti, impiegati, pubblicisti, studenti, artigiani e qualche libero professionista.

La breve storia degli Arditi del Popolo

Insieme alle adesioni arrivano anche i primi successi militari: le difese di Viterbo (che vide la cittadinanza stringersi attorno ai militanti antifascisti per respingere l'assalto degli squadristi perugini) e di Sarzana (nei cui scontri restarono uccisi una ventina di fascisti), organizzate dagli arditi del popolo dei due centri, disorientano e incrinano la compagine mussoliniana: le due anime del fascismo individuate da Gramsci, quella urbana - più politica e disponibile alla trattativa - e quella agraria - essenzialmente antipopolare e irriducibile a ogni compromesso - giungono a un passo dalla scissione. Ma, violentemente osteggiati dal governo Bonomi, gli Arditi del popolo non ricevono - tranne qualche eccezione - il sostegno dei gruppi dirigenti delle forze del movimento operaio e nel volgere di pochi mesi, riducono notevolmente il loro organico, sopravvivendo in condizioni di clandestinità solo in poche realtà tra le quali, Parma, Ancona, Bari, Civitavecchia e Livorno; città in cui riusciranno, con risultati differenti, a opporsi all'offensiva finale fascista nei giorni dello sciopero generale "legalitario" dell'agosto 1922. Già nell'autunno precedente, comunque, l'azione congiunta di governo e Magistratura aveva dato i suoi frutti: le sezioni dell'associazione si erano ridotte a una cinquantina e gli iscritti a poco più di seimila.

Il motivo di questa brusca battuta d'arresto non va però ricercato solamente nell'atteggiamento delle autorità. I provvedimenti bonomiani contro i corpi paramilitari (che danneggiarono le sole formazioni di difesa proletaria), le disposizioni prefettizie, gli arresti, le denunce e lo stesso atteggiamento della Magistratura (ispirato alla politica "dei due pesi e delle due misure"), non sarebbero stati possibili o comunque pienamente efficaci se le forze politiche popolari avessero sostenuto, o quantomeno non osteggiato, la prima organizzazione antifascista. Ma esse, per ragioni differenti, abbandonarono al proprio destino la neonata struttura paramilitare a tutela della classe lavoratrice.

Tolta la piccola Frazione terzinternazionalista, Il PSI, il principale partito proletario, oltre a fare propria la formula della resistenza passiva, si illuse di poter siglare un accordo di pace duraturo con il movimento mussoliniano (il cosiddetto "patto di pacificazione"), e con la quinta clausola di questo patto scellerato, dichiarava, non senza una dose di calcolato opportunismo, la propria estraneietà all'organizzazione e all'opera degli Arditi del popolo.

Colto alla sprovvista dalla loro comparsa, ma propenso ad opporre forza alla forza, il Partito comunista decide di non appoggiare gli Arditi del popolo poiché - a detta del Comitato esecutivo - costituitisi su un obiettivo parziale e per giunta arretrato (la difesa proletaria) e, dunque, insufficientemente rivoluzionari. La difesa proletaria doveva realizzarsi esclusivamente all'interno di strutture controllate direttamente dal partito, e gli Arditi del popolo - definiti infondatamente "avventurieri" e "nittiani" - dovevano considerarsi alla stregua di potenziali avversari. Ma moltissimi comunisti (tra cui anche qualche dirigente e, all'inizio, lo stesso Gramsci) non accettarono simili disposizioni e restarono all'interno degli Arditi del popolo o proseguirono nell'azione di collaborazione e/o appoggio. Solo dopo ulteriori interventi da parte del "Centro" (accompagati da vere e proprie minacce di gravi provvedimenti disciplinari) la maggior parte delle strutture del PCd'I si adegua alla linea ufficiale e va ad allargare le fila delle Squadre comuniste d'azione. Questa scelta politica viene criticata duramente dall'Internazionale comunista che, a partire dall'ottobre del '21, avvierà un serrato dibattito con i dirigenti del PCd'I, stigmatizzandoli per il loro settarismo.

Con l'eccezione del Lazio, del Veneto e della Federazione giovanile, per quanto riguarda i repubblicani, e del Parmense e di Bari, per sindacalisti rivoluzionari e legionari fiumani, le forze politiche della "sinistra interventista" si orientano quasi subito anch'esse verso soluzioni di autodifesa che escludono la confluenza o la collaborazione con gli Arditi del popolo. Anche queste formazioni preferiscono organizzare l'autodifesa a livello partitico, teorizzando, nella maggioranza dei casi, la perfetta equidistanza tra "antinazionali" (anarchici, socialisti e comunisti) e "reazionari" (fascisti, nazionalisti e liberal-conservatori).

L’unica componente proletaria che sostiene apertamente l’arditismo popolare è quella libertaria. Un'area composita e numericamente consistente al cui interno vi sono anime tra loro assai diverse. In ogni caso, sia l’Unione sindacale italiana che l’Unione anarchica italiana sono, per tutto il biennio 1921-22, sostanzialmente favorevoli alla struttura paramilitare di autodifesa popolare. Dopo l'allineamento di Gramsci e de "L'Ordine nuovo" alle direttive del partito, il quotidiano anarchico "Umanità Nova" rimane infatti l’unica voce proletaria a perorare la causa degli Arditi del popolo.

venerdì 5 ottobre 2012

A. Pirondini, Anarchici a Modena. Dizionario Biografico

Andrea Pirondini
Anarchici a Modena.
Dizionario biografico
pp. 240 EUR 17,00

Le storie personali, a cui spesso si è riusciti a restituire un volto, e le tante 'vite militanti' raccolte in questo dizionario consentono una ricostruzione inedita dell'ambiente politico e sociale modenese, dalla fine dell'Ottocento al secondo dopoguerra. Un libro di memorie che va oltre la trasmissione della memoria del Movimento anarchico per assumere il valore inaspettato di un racconto di cui andare orgogliosi. L'augurio è che, con questo contributo, la storia degli anarchici modenesi abbia finalmente raggiunto la maturità per uscire dall'anonimato, dalle mistificazioni ed essere riconosciuta come una componente importante della nostra storia e identità locale

zeroincondotta

martedì 2 ottobre 2012

Leda Rafanelli (1880-1971)

Leda Rafanelli nasce a Pistoia nel 1880. Di famiglia piccolo borghese, inizia a lavorare come tipografa. A vent'anni trascorre un breve periodo ad Alessandria d'Egitto dove viene a contatto con vari esponenti del movimento anarchico di lingua italiana e si converte all'islamismo. Al suo rientro in Italia, a Firenze, frequenta la Camera del Lavoro, dove incontra Luigi Polli, giovane militante anarchico conosciuto in Egitto. Si sposano e danno vita ad una piccola casa editrice denominata Edizioni Rafanelli-Polli. Leda scrive opuscoli anticlericali, antimilitaristi e di propaganda. Nel 1905 esce il suo primo romanzo: Un sogno d'amore. Nel 1906, pubblica "La Blouse", rivista sociale. È propugnatrice del socialismo anarchico, ma nel 1907, in seguito all'incontro con Giuseppe Monanni, anarchico individualista, avviene una svolta nella sua vita, sia dal punto di vista ideologico che affettivo.
Scrive su "Vir" (Firenze, 1907-1908), rivista teorica individualista,
su "La Protesta Umana" (1906-1909), "La Sciarpa Nera" (1909-1910), "La Questione Sociale" (1909), "La Rivolta" (1910-1911) e "La Libertà" (1913-1915). Nel 1909 la coppia inizia l'attività editoriale, creando la Società Editoriale Milanese e pubblicando anche varie opere di Leda: Bozzetti Sociali, Seme Nuovo, Verso la Siberia. Nel 1910, dopo la nascita del figlio Elio Marsilio (Aini), si trasferiscono a Milano aprendo la Libreria Editrice Sociale. Carlo Carrà, non ancora noto, ne disegna il logo.
È in questo periodo che nasce un'amicizia tra lei e Mussolini che terminerà nel 1914 (nel 1946, Leda raccoglierà in un volume le lettere che Mussolini le aveva indirizzato). Nel 1917 esce il romanzo Incantamento. L'attività editoriale riprende nel dopoguerra; Leda pubblica L'Eroe della Folla, Donne e Femmine. La Casa Editrice Sociale, risorge nel 1926, come Casa Editrice Monanni, dopo che nel 1923 è distrutta da una spedizione fascista, pubblicando testi a sfondo sociale e libri di autori internazionali. Nel 1934 si conclude definitivamente il rapporto affettivo tra Monanni e Leda che nel 1942 lascia Milano e va a vivere prima a Sanremo poi a Genova. Leda si allontana dall'attivismo anarchico, continuando a scrivere prose ritmiche, poesie, fiabe per bambini, con lo pseudonimo di Zagara Sicula e romanzi, la maggior parte dei quali ancora inediti. Riprenderà in seguito a scrivere articoli su varie testate anarchiche, che ha finanziato fino alla fine dei suoi giorni. Si spegne a Genova il13 settembre 1971.

da: Archivio Camillo Berneri